Eletta formalmente il 12 marzo, non è passato giorno senza che Elly Schlein non abbia trovato una cosa da dire, una cosa da fare, obiettivamente un’altra musica rispetto alle mollezze dell’era Letta e al dilettantismo della segreteria Zingaretti. Lei si sta dimostrando caparbia, persino dura malgrado l’immagine mite, una professionista della politica per quanto sui generis.
A un mese dalla sua ascesa non si sa ancora se abbia in testa un progetto di lungo respiro – e questa incognita continua a essere il suo punto più debole – e però emerge chiaramente la volontà di marcare il territorio radicalizzando il Partito democratico a sinistra in modo speculare allo spostamento a destra del quadro politico impresso dalla rivale Giorgia Meloni.
Quella che Schlein ha scelto di fare è una battaglia giorno per giorno, nella qual cosa c’è forse un ritorno d’immagine ma anche una obiettiva subalternità alle iniziative altrui: infatti Elly non riesce a dettare l’agenda politica reale.
Nel day by day il Partito democratico non ha mollato Matteo Piantedosi nei giorni della strage di Cutro così come adesso non molla Ignazio La Russa sul 25 aprile, passando per gli abbracci a Giuseppe Conte e Maurizio Landini, e alla partecipazione a ogni occasione di piazza, da ultimo il sit-in per Giulio Regeni davanti al Tribunale di Roma.
Quello che manca del tutto è uno sforzo programmatico, soprattutto sul terreno dell’economia, dove si ribatte giusto nei pastoni dei telegiornali alle magagne del governo ma senza minimamente offrire una proposta alternativa, una piattaforma in grado di suscitare interesse nel Paese: per questo diremmo che sull’economia (e sull’informazione) il nuovo Partito democratico non c’è ancora.
Ma nell’insieme non c’è dubbio sul fatto che si stanno confermando, nel silenzio dei riformisti dem o come li si vuole definire, le previsioni della vigilia: Schlein sta spostando a sinistra il Partito democratico o, come preferiamo dire, lo sta “radicalizzando”).
Di pari passo con l’indurimento della linea, la segretaria sembra voler procedere come un rullo compressore anche dal punto di vista interno.
Sistemata come lei voleva la questione dei capigruppo, con i “suoi” Francesco Boccia e Chiara Braga, ha commissariato la Campania con Antonio Misiani e la federazione di Caserta con Susanna Camusso in chiave di rinnovamento anti-De Luca, mentre sta incontrando qualche difficoltà sulla segreteria che infatti doveva essere nominata ieri ma serve ancora qualche giorno, anche se già si immagina che sarà la segreteria politicamente più spostata a sinistra di sempre (sull’ambiente una antinuclearista come Rossella Muroni, su lavoro e economia Cecilia Guerra, entrambe ex Sel, per dire).
Delle politiche delle varie leadership passate (inutile dire, maxime Renzi) resterà poco o nulla, a parte la fondamentale posizione sull’Ucraina (ma anche qui vedremo se la scelta cadrà su Peppe Provenzano o su un esponente vicino a Stefano Bonaccini, la cosa può avere conseguenze diverse).
La “pax bonacciniana” regge ma i malumori serpeggiano, alimentati dalla frustrazione di quanti sono scesi dalla giostra, anche esponenti importanti che contano sempre meno e che nelle conversazioni non sono esattamente prodighi di omaggi nei confronti della nuova leader. La quale non dimentica nemmeno per un attimo il ruolo di anti-Meloni che si è assegnata in un quadro di un auspicato (dal Partito democratico) ritorno a un pieno bipolarismo – e in questo senso non ha dato eccessivo peso alla performance in Friuli Venezia Giulia, una partita impossibile nella quale nemmeno lei si attendeva un effetto-Schlein tale da contenere la valanga di una destra presentabile come quella impersonata da Massimiliano Fedriga.
D’altronde – è la magra consolazione – gli altri sono andati anche peggio, dal Movimento 5 stelle al Terzo Polo.
Ieri il Pd ha ripreso in mano, tramite il fido Boccia, la polemica sul 25 aprile, terreno che Schlein non intende mollare, insieme a quello del Pnrr, sul quale peraltro le opposizioni hanno ottenuto che il ministro Raffaele Fitto si rechi in Aula a riferire sullo stato dell’arte.
Ed ecco dunque che nei giorni scorsi si è lavorato a una mozione sottoscritta da tutti i gruppi di opposizione che verrà votata il 12 e che contiene una parolina che, incredibilmente, scotta: antifascista. Scotta perché, come si è visto ormai innumerevoli volte, né la presidente del Consiglio né tantomeno il presidente del Senato né autorevoli ministri riescono a pronunciare quelle cinque sillabe che sono a fondamento della Carta Costituzionale sulla quale pure hanno giurato.
Allora Partito democratico, Terzo Polo, sinistra-verdi, Movimento 5 stelle e autonomie invitano – sulla scorta delle parole pronunciate da Liliana Segre nel suo memorabile discorso del 13 ottobre 2022, primo giorno della legislatura – a celebrare «le date fondative della nostra Storia antifascista (a partire dal 25 aprile, ndr) nel rispetto della verità storica condivisa».
Un’iniziativa per snidare i meloniani che se fossero intelligenti dovrebbero votarla anche loro, quella mozione. Così sono questi primi giorni di Elly Schlein, impegnata a ribattere colpo su colpo ma sempre in difesa. Mentre servirebbe uno Jannik Sinner, uno capace di rispondere attaccando.