Sulla fiduciaLa riforma del codice degli appalti responsabilizza gli amministratori pubblici

Le novità più importante della nuova normativa è la possibilità di affidare lavori senza gara fino alla soglia di 5,3 milioni di euro. Una soluzione europea che libera gli enti dal rischio di essere sanzionati per scelte discrezionali che non configurano colpa grave

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Dal primo luglio gli affidamenti di lavori e servizi pubblici saranno regolati dal nuovo codice degli appalti. Il legislatore infatti – forse per non smentire le dichiarazioni del governo – ha previsto che la nuova legge – D. Lgs 32 marzo 2023 n.36 – entri in vigore il primo aprile ma che la sua efficacia sia sospesa sino al primo luglio 2023.

Il nuovo codice rimette mani all’ultima riforma attuata nel 2016 dal governo Renzi al fine di semplificare e accelerare la realizzazione delle opere pubbliche. Intervento importante per poter sfruttare appieno le opportunità che derivano dai fondi Piano nazionale di ripresa e resilienza.

L’impianto normativo è in larga parte equivalente al testo licenziato dal Consiglio di Stato, organo sicuramente deputato a soppesare gli obiettivi di tutela della legalità, della concorrenza e dell’efficienza delle regole rispetto al fine ultimo di realizzare opere pubbliche utili alla collettività, in tempi ragionevoli e sfruttando a meglio la best practice della tecnica realizzativa.

Tra le novità della riforma vi è la possibilità per le stazioni appaltanti di affidare lavori senza gara, con negoziazione privata tra amministrazione committente e privato appaltatore a 5,3 milioni di euro, innalzando così la soglia di trecentocinquantamila euro prevista nel codice oggi in vigore.

La modifica non nasce da una proposta del Consiglio di Stato né da qualche parlamentare appartenente a una famiglia di costruttori. La soglia di 5,3 milioni deriva direttamente dalle previsioni della normativa comunitaria. La direttiva 2014/24/UE, all’art. 4, paragrafo 1, lett. A – come, da ultimo, aggiornato dal Regolamento Delegato 2021/1952/UE della Commissione del 10 novembre 2021 – ha fissato la soglia per l’affidamento con una scelta legislativa che sancisce il favore del legislatore comunitario per il criterio di flessibilità per gli appalti di piccole dimensioni dove la relativa semplicità dell’oggetto – e quindi anche l’esistenza di riferimenti di mercato – non richiede una gara pubblica per determinare l’offerta che meglio risponda all’interesse pubblico della stazione appaltante.

La scelta del legislatore di recepire nel nuovo codice la regola comunitaria per gli affidamenti diretti ha generato l’automatica reazione di chi ritiene che un innalzamento della soglia di flessibilità sia un fatto negativo poiché aumenta il rischio che gli amministratori pubblici privilegino la tentazione di favorire uno o più amici invece di affidare opere pubbliche secondo il criterio del miglior interesse dell’amministrazione. Questa preoccupazione è stata espressa in primis dal presidente dell’Anac Giuseppe Busia, che in un’intervista al Corriere della Sera del 30 marzo ha pubblicamente dichiarato che l’innalzamento della soglia degli affidamenti diretti a 5,3 milioni di euro aumenta il rischio che gli appalti vengano affidati a parenti e amici senza verifica di qualità.

Nella medesima intervista Giuseppe Busia ha dichiarato che la soglia al di sotto della quale non sia necessaria la gara pubblica non dovrebbe essere superiore al milione di euro. Busia ha un po’ corretto il tiro dopo le reazioni piccate del ministro delle Infrastrutture, ma il parere negativo dell’Anac rispetto alla norma è chiaro e forte.

Mi prenderò il rischio di apparire filosalviniana per dire che la posizione di Anac non aiuta a migliorare la qualità delle stazioni appaltanti e perpetra la cultura del sospetto che spesso paralizza l’operato di tanti amministratori pubblici. Molto spesso – e voglio credere che si tratti della maggioranza dei casi – le stazioni di committenza, lungi dal voler favorire parenti e amici, hanno semplicemente a cuore l’interesse della collettività che rappresentano e si trovano a dover privilegiare il rispetto di forma e formalismi piuttosto della sostanza.

Consapevole della semplificazione, utilizzo un paradosso: se vogliamo ristrutturare casa, il passaparola e la conoscenza dell’appaltatore è generalmente considerato un elemento prezioso che, peraltro, non ci impedisce di negoziare al meglio il corrispettivo di appalto. È anche possibile che il privato scelga la controparte che non offre il prezzo migliore ma che risulta preferibile per qualità e affidabilità. Nel pubblico è esattamente il contrario: il sindaco o l’assessore devono assicurarsi che gli affidatari siano sconosciuti e che non abbiano precedentemente lavorato (anche se bene) per l’amministrazione al fine di non generare un sospetto che la conoscenza sia considerata un rapporto non virtuoso e foriero di sospetti. Inoltre, sebbene il codice degli appalti consenta l’affidamento sulla base dell’offerta economicamente più vantaggiosa – che contempera qualità e prezzo – molto spesso è difficile per le amministrazioni redigere bandi coraggiosi nei quali si premi la qualità e la best practice.

Ovviamente non voglio insinuare che la corruzione sia una fake news ma sono convinta che sia un errore pensare che il codice degli appalti abbia il compito primario di combattere la corruzione.

Assumere che i sindaci lasciati liberi di trattare con i privati agiscano automaticamente contro gli interessi dell’ente che rappresentano equivale a una dichiarazione di fallimento del sistema. Anche perché – se fosse così – l’affermazione equivarrebbe a un generale laissez faire sotto la soglia del milione. In altre parole, il pensiero sembra questo: la corruzione o, al meglio, la mancanza di professionalità degli amministratori pubblici è un male endemico, almeno limitiamolo agli affidamenti sotto il milione.

Rovesciamo invece il paradigma e assumiamo che gli amministratori pubblici agiscano con l’obiettivo del miglior interesse dell’amministrazione. L’idea è che la flessibilità della trattativa privata consenta al dirigente pubblico – come il buon padre di famiglia e l’amministratore di società privata – di ottenere il miglior risultato. Non va dimenticato che i prèsidi per valutare il buon operato di un amministratore pubblico sono innanzitutto politici mentre le fattispecie che possano qualificare un reato sono di competenza di pm e del codice penale, e non dell’Anac. Flessibilità peraltro non significa negare il fondamentale principio della concorrenza, che non necessita, in principio, di un ambiente regolato.

Qualche tempo fa ho visitato l’Adi Design Museum di Milano, bellissima esposizione del compasso d’oro. Tra gli esempi di eccellenza c’è il compasso d’oro del 1964 attribuito agli architetti Franco Albini, Franca Helg e al grafico Bob Noorda per il coordinamento architettonico e l’organizzazione della segnaletica delle stazioni della M1. Ho pensato che l’iniziativa Comune di Milano degli anni sessanta di regalare alla città stazioni all’avanguardia, anche sotto il profilo del design, sarebbe forse impossibile, o comunque immensamente più ardua, nell’epoca della cultura del sospetto, spesso superficialmente alimentata dai media in cerca di un inesistente scandalo.

Ma torniamo all’Europa. La direttiva appalti del 2014, pur lasciando spazi di manovra agli Stati, ha adottato un impianto normativo che si ispira a un’idea di fondo: l’Amministrazione che operi in maniera trasparente, professionale, responsabile e consapevole delle proprie esigenze e di come soddisfarle è in grado di superare i fenomeni di cattiva gestione.

In altri termini, la legislazione comunitaria mira alla professionalizzazione delle stazioni appaltanti. Il raggiungimento di questo obiettivo presuppone la selezione di organici adeguati ma anche e soprattutto la possibilità degli stessi di operare in un contesto di legalità ma anche di fiducia, senza che le scelte che presuppongono un necessario margine di discrezionalità siano frutto di riletture formalistiche e basate sull’assunto che il marcio c’è sempre, basta solo cercarlo. In altre parole, la piena implementazione della normativa comunitaria in materia di appalti presuppone il superamento della cultura del sospetto.

Seguendo l’indirizzo comunitario, un importante elemento di riforma di carattere culturale del nuovo codice sta nell’articolo 2 che è rubricato “Principio della fiducia” e che mira a valorizzare l’autonomia discrezionale e la responsabilità degli amministratori pubblici liberandoli del rischio di essere sanzionati per scelte discrezionali che non configurino colpa grave.

Ho sempre pensato che – in occasione della riforma del codice degli appalti operata dal governo Renzi nel 2016 – non sia stata una buona idea rinominare l’allora Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici in Autorità Anti Corruzione. Forse oggi si potrebbe pensare a un nuovo nome: Autorità per il ripristino della fiducia dell’azione amministrativa.

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