Meno male che Matteo c’è. Prima c’era «meno male che Silvio c’è», ma erano i “gloriosi” anni del Truman Show di Silvio Berlusconi, in cui cantava in coro una giovanissima Francesca Pascale. Più recentemente molti oppositori in carica permanente si erano illusi che il Cavaliere avrebbe dato filo da torcere a Giorgia Meloni, lanciando in resta Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo. Poi i due sono stati rinchiusi nel recinto della zoologia fantastica del padrone di Forza Italia.
Cronache di pochi giorni fa, quando sembrava che a filare d’amore e d’accordo erano i giovani leoni del centrodestra – la premier e il capo leghista – mentre il vecchio leone era rimasto solo nella savana politica in attesa di essere sbranato dalle iene, che in politica sono più cattive e numerose di quelle vere.
E invece the show must go on e non ci si annoia mai. Colpo di scena: il sire d’Arcore si allinea a Giorgia, sotto i buoni auspici di Marina Berlusconi e Sua eminenza Gianni Letta. Mentre il ruvido leghista scarta, come al solito si agita, mette in testa tutti i caschi gialli dello Stivale, attraversa ponti immaginari sullo Stretto. Si è trasformato nel capo cantiere d’Italia e così vestito, senza più le felpe e le divise della Polizia, galleggia, rosicchia consensi, vince con un suo uomo in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia, piazzando, in questa Regione frontaliera, il suo partito in testa alla classifica. Sommando i voti presi dalla lista di Massimiliano Fedriga fanno più del trenta per cento, scavalca Fratelli d’Italia che alle politiche aveva fatto mangiare la polvere ai leghisti.
E ora Matteo vuole mettere il turbo per arrivare alle europee del 2024 di slancio, come una fionda. «Dobbiamo avvicinarci quanto più possibile al venti per cento», è l’ordine di scuderia del ministro dei cantieri d’Italia. Pancia terra e pedalare, anche perché non vuole far notare troppo la voragine che gli si è aperta sotto i suoi piedi rispetto alle europee del 2019, quando fece un botto eclatante (34,3 per cento, ventotto eletti). Si illuse di avere in mano l’Europa con una ciurma scalcagnata di sovranisti sparsi per il Vecchio Continente.
Dunque, la Lega ha esultato per la vittoria friulana, sottolineando «lo splendido risultato», dopo una campagna elettorale che ha visto «protagonista il leader Matteo Salvini, nei giorni del via libera al nuovo codice degli appalti e al Decreto Ponte». «Avanti a testa alta, con umiltà e determinazione: ad attacchi e polemiche rispondiamo con sorriso e lavoro», ha chiosato il Capo Cantiere d’Italia.
Adesso ha lanciato nella mischia il capogruppo Riccardo Molinari, secondo il quale sarebbe il caso di rinunciare a una parte del Pnrr, a quei fondi che ci verrebbero assegnati a debito: meglio non «spendere soldi tanto per spenderli, a caso», ha aggiunto Molinari.
A Palazzo Chigi è venuta una sincope, pensando tra l’altro alla rabbia calma del capo dello Stato e alla reazione che in queste circostanze hanno gli spocchiosi frugali nordici di fronte ai soliti italiani mangia spaghetti. È il caso però di ricordare che la stessa Meloni, ai tempi dell’opposizione fruttifera di voti, aveva più di una perplessità proprio sui fondi a debito del Next Generation Eu.
Ma che diavolo è venuto in mente a Salvini, si è chiesta Meloni. Non va perso un solo euro, rimoduliamo semmai, ma avanti con «il confronto costruttivo» con Bruxelles al quale si sta dedicando Raffaele Fitto.
È forse l’accentramento a Palazzo Chigi nelle mani del ministro di Fratelli d’Italia a infastidire il capo del Carroccio. Oppure, attenzione, c’è qualcosa di più pesante. Tutte le tracce portano alla rimodulazione del Piano, di cui parla Meloni. Lei vorrebbe dirottare una parte dei miliardi verso il RePowerEu per l’energia sostenibile.
Per Salvini invece questa storia della transizione ecologica ha stufato alla grande. Lui vorrebbe rimodulare in maniera diversa: ricontrattare con l’Europa la destinazione degli stessi fondi del Pnrr, destinarli ad altro. Basta ascoltare quello che ha detto ieri alla Camera Alberto Bagnai. Ha sostenuto che alcune priorità del Piano non sono aderenti alle esigenze del nostro tessuto produttivo: «Chiunque giri per il Paese si rende conto che abbiamo bisogno di infrastrutture tradizionali, strade, e nel Pnrr non c’è un centesimo per questa roba qua. Bisogna spendere in cemento, quella orribile cosa grigia che però serve a mandare avanti l’economia». Chiaro?
Altrettanto chiare sono state le parole di Molinari, che è ritornato sulla questione specificando che le soluzioni sono due: o si contratta con l’Europa, e quindi si destinano i fondi ad altro (cemento, ndr) oppure, piuttosto che spenderli male, meglio non spedirli. «Se Meloni riesce a ricontrattare, evviva, stappiamo lo spumante», è stata la conclusione del capogruppo leghista.
Siamo arrivati al punto vero. È in corso un braccio di ferro dentro la maggioranza sul merito dell’uso dei miliardi che in prevalenza dovrebbero spingere l’Italia verso la transizione ecologica e digitale. Salvini si erge a sindacalista del partito del cemento, incarnando fino in fondo il ruolo di Capo Cantiere d’Italia. Più soldi arrivano alle infrastrutture, di cui è ministro, più grande sarà il suo protagonismo nei prossimi mesi di campagna elettorale. Sa che il governo non può contrattare alcunché sul cuore del Piano. Si mette sull’argine di fiume: è una rogna di Meloni e Fitto. Se non ci riescono lui potrà dire che ha fatto di tutto per difendere «il tessuto produttivoW del Paese che ha bisogno di strade e ponti. La campagna elettorale ha già acceso i motori a pieno regime.
Sì, meno male che Matteo c’è, che c’è una «vera opposizione» dentro la maggioranza, carica di interessi di potere. Altrimenti sai che noia con l’opposizione Elly Schlein, Giuseppe Conte, Carlo Calenda. Noi giornalisti da strapazzo, le famose iene dattilografe di dalemiana memoria, moriremmo di pizzichi.