Cronache privateLa giustizia, come la verità, è in mano a uomini imperfetti

Il caso Rambaldi, un’indagine parallela a quella delle forze dell’ordine, l’interesse a intermittenza della stampa e segreti impronunciabili. L’Italia giovane e bella degli anni Sessanta vorrebbe lasciarsi alle spalle un passato che rimane in agguato nel buio nel primo romanzo di Valentina Parasecolo

Ugo Mulas, Il laboratorio. Una mano sviluppa l’altra fissa © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

Era passato quasi un anno dal giorno in cui Sergio era stato ucciso e seppellito sotto la sabbia di una spiaggia lacustre. Giovanni pensava a lui ogni giorno, mai gli era successo con una vittima delle storie che aveva coperto.

Caso Rambaldi. La Cassazione ha accolto il ricorso dei legali di Sacchi, riconoscendo l’insufficienza delle motivazioni contenute nel mandato di cattura. Nel capo di imputazione il giudice istruttore Curzio Monaldi ha combinato un pasticcio perché i «sufficienti indizi di colpevolezza» alla base della propria decisione non erano affatto elencati. Una svista non da poco, che getta il sospetto dell’inadeguatezza su questo magistrato silenzioso, che pure da mesi lavora a testa bassa sull’omicidio del piccolo Sergio.

Giovanni gettò il mozzicone di sigaretta a terra e scosse la testa, pensando allo sbaglio grossolano di Monaldi. Sempre di più quella storia gli appariva come una sequenza di istinti, irrazionalità, scelte emotive ed errori.

Se n’era convinto a forza di coprire omicidi e scandali. Diversamente dall’idea che hanno molti lettori, di giornali e di libri, diversamente da quello che lui stesso aveva pensato per tutta la vita, il male quasi mai è il frutto di un’attenta elaborazione, il piano di un’intelligenza malevola. E quasi mai la soluzione della giustizia, l’equilibrio finale del bene, è una conquista logica e lineare fondata su una causalità perfetta.

La citrullaggine, la leggerezza, talvolta l’inerzia del conformismo muovono il mondo anche nei suoi fatti più crudeli. Lo aveva sentito dire anche all’osteria a Ferso… «Quasi sempre i fattacci avvengono per stupidità!» Il tentativo di ricondurli alla ragione, attraverso i tribunali, non doveva far credere che a prevalere fosse sempre il limpido procedere del senno. La giustizia, come la verità, era in mano comunque a uomini imperfetti.

Era sabato notte. Chi non aveva il turno o la moglie a casa scendeva alla fiaschetteria. La fiaschetteria era a pochi passi da piazza Duse, il salotto silenzioso dell’alta borghesia, alla quale – nella redazione – appartenevano solo il direttore e pochi altri, quasi tutti legati all’editore. Il locale, bohémien e un filo chiassoso, era tollerato dai residenti solo perché si trovava ai margini del quartiere. E poi si lasciava frequentare da qualche intellettuale, comprese alcune firme prestigiose della Pagina e di Tempi moderni, la cui sede da qualche anno dava sui giardini di via Palestro.

L’aria fresca di un’estate pronta a concedere un po’ di ferie spingeva i giornalisti più audaci a concludere la giornata facendo serata alla Sala Venezia o al Basso. Giovanni non si sentiva affatto audace, voleva solo un amaro e poi camminare lentamente verso casa. Con un bicchiere pieno in mano si accomodò quindi su una sedia isolata rispetto al resto dei tavoli festanti, all’aperto, fuori dalla fiaschetteria.

Molina gli si avvicinò: «Hai letto la breve di domani su Rambaldi?»
«Sì, era tua? Non c’era la firma.»

«Sì, giusto due righe per aggiornare…» Milano, pochi mesi dopo la strage di piazza Fontana, era un susseguirsi di scioperi e proteste. Poco spazio per la nera nazionale, anche nel rotocalco. «Che disastro Monaldi… Allierini, il pubblico ministero, è certo che il delitto sia a sfondo sessuale.» Stavano scadendo i termini di carcerazione anche per Lauri e per Madia. «Vedrai… Se non trovano buone prove quelli tornano in libertà e magari ci restano.» Lo diceva con una punta di amarezza, come a lasciar intendere che del caso in fondo gli importasse davvero.

«Secondo te ci rimandano a Ferso?»
«No, no. Almeno non per ora. Non interessa…» fece lui guardando verso l’arco della Società Buonarroti, colonne d’Ercole del quartiere.
Stavano arrivando due giovani donne, studentesse universitarie amiche di Molina.

Il giornalista respirò a pieni polmoni come a voler accogliere il profumo di quel momento, per ricordarlo. Con una figlia ormai alle medie, una separazione in corso e un patrimonio di citazioni da migliaia di libri letti, pareva navigato e insieme refrattario a coinvolgimenti emotivi troppo intensi: dava l’idea di saper bene cosa volesse dire godersela.

«Tu, caro Pitorsi, come diceva Giovanni Verga, “hai avvelenato la festa della giovinezza esagerando e complicando i piaceri dell’amore”, e così ti prendi i dolori che ne sono il risultato. Ma hai quanto? Venticinque anni?…»
«Trenta. Quasi.»
«E allora fai ancora festa, che a forza di far festa ti passa la voglia di avvelenarla!»

Giovanni quella voglia l’aveva vista svanire negli ultimi anni; si era appena rinvigorita dopo l’estate trascorsa a Ferso. Gli pareva di poter essere finalmente lineare. Ma com’era finita? Con la certezza che Dora andasse solo dimenticata, che fosse persa per sempre.

Quindi, per quanto lo riguardava, ogni giro di danza sarebbe stato solo accidentale. Non erano più i tempi dei corteggiamenti, dei complimenti, degli amoreggiamenti operosamente ricercati. Quelli dai quali poi scappare in modo rocambolesco o vigliacco. Non erano più i tempi in cui si potevano avere insieme una promessa sposa a casa, un’amante al lavoro e una di cui innamorarsi in Maremma. Non ne aveva più la forza, anche se non aveva neppure trent’anni. […]

Che carine che erano le studentesse… Una, Barbara – sì, forse si chiamava Barbara –, cercava di coinvolgere Giovanni con fare sinceramente incuriosito: «Quando hai iniziato a fare il fotografo?», «Ti piace?», «Qual è il tuo scatto migliore?» Era un accidente, Barbara? Un accenno di amore non cercato che gli stava di nuovo piombando addosso? Giovanni voleva lasciarsi andare ma, mentre rispondeva alla raffica di piccole domande col suo solito stile laconico, sentiva addosso lo sguardo di Imma.

Se fai un’altra festa di lacrime questa volta la paghi. Non voleva rischiare di incrociare il suo volto, lo evitava come fosse quello della Medusa. Eppure, se le avesse dato le spalle avrebbe provato il fastidio di una coltellata invisibile, alla schiena.

Pensando di poter vincere l’aria da sortilegio che la donna aveva portato davanti alla fiaschetteria, Giovanni prese per mano Barbara e, tenendo nell’altra l’ultimo drink, si avviò verso il parco come per sottrarsi allo sguardo altrui. Era l’unico sforzo che era disposto a fare per accogliere il nuovo incontro.

«Dove vivi?»
«A Porta Ticinese.»
Stava dalla parte opposta rispetto a casa sua, ma ora che l’aveva allontanata dall’amica e dal gruppo provava un senso di colpa a lasciarla sola nella notte milanese.
«Ti accompagno io… Ma andiamo piano che, come vedi, so’ zoppo…»
«Che ti è successo?»

Avrebbe dovuto raccontarle dell’incidente da tombarolo, ma non aveva voglia di addentrarsi in storie bizzarre con una sconosciuta: «Incidente sul lavoro, durante un servizio.»

Lei lo guardava incuriosita: nella misteriosa e frettolosa ritrosia ad approfondire c’era il principio di una fascinazione. La ragazza studiava Lettere, veniva da Novara, le piaceva disegnare. «Perché non sei fidanzato?»

Quello che Giovanni non aveva chiaro era che la festa della giovinezza l’avvelenano anche le ragazze quando invece di tirarsi indietro di fronte a una possibile complicazione cedono rovinosamente alla sua seduzione. Per questo quando lui rispose: «Barbara, sono un disgraziato», credendo di destare con la franchezza una qualche saggia ritrosia, quella replicò altrettanto francamente: «Be’, a me piacciono i disgraziati.»

E lui se ne stupì, come ogni volta. […]

Da “Cronache private” di Valentina Parasecolo, Marsilio, 496 pagine, 21 euro.

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