The Laboratory of the FutureDecolonizzazione, ambiente e uguaglianza alla Biennale Architettura di Lesley Lokko

A Venezia lo sguardo contemporaneo della direttrice scozzese (con cittadinanza ghanese) insiste sul rapporto tra Africa e mondo occidentale, affronta il tema del riscatto sociale e confeziona tutto con una nota pop funky unita all’attenzione per la cultura materiale

Credits: Biennale Architettura Venezia

Pur essendo tra le più giovani discipline della Biennale di Venezia, sono diciotto edizioni rispetto alle cinquantanove d’arte, l’architettura è forse quella che è cambiata di più rispetto al suo esordio da indipendente che data 1980.

Dove un tempo essa si poneva come il luogo privilegiato della cultura del progetto e – fedeli al pensiero di Leonardo da Vinci, – quello della sintesi ideale di tutte le arti fino a giungere a una forma perfetta, oggi (anzi non da oggi) è il territorio dell’ibrido, del multilinguaggio, della contaminazione con la chiara aspettativa sì di interrogare il presente ma soprattutto di immaginare il futuro.

E infatti si intitola “The Laboratory of the Future” la Biennale targata Lesley Lokko, architetta, storica e scrittrice nata in Scozia e cittadina del Ghana, scelta dal presidente Roberto Cicutto che i precedenti direttori li aveva ereditati da Paolo Baratta. A differenza del “presidentissimo” ha voluto mantenere una linea di continuità sposando la linea degli altri mondi rispetto al centralismo occidentale, che motiva anche la scelta di Adriano Pedrosa, brasiliano, per l’arte nel 2024 – che ha stupito molti.

Credits: Biennale Architettura Venezia

Il fatto che Lokko sia una donna di per sé non costituisce una novità: rispetto all’edizione diretta da Hashim Sarkis – che nonostante il Covid fece un ottimo risultato di pubblico – Lokko insiste sul rapporto tra Africa e mondo occidentale, e il tema della decolonizzazione, dunque del riscatto sociale e culturale di un intero continente, è presente in maniera talora ossessiva ma inevitabile, mediato però da un gusto pop funky e dall’attenzione per la cultura materiale che rende la mostra piuttosto gradevole nonostante l’impegno socio-politico su cui Lokko talora calca la mano.

Credits: Biennale Architettura Venezia

Molto interessante l’uso dei materiali “poveri” dal valore artigianale rispetto alla sovrabbondanza della tecnologia cui eravamo abituati: c’è il rischio del bric-à-brac domenicale, ma almeno non invecchiano, perché la storia delle culture si mescola alla comunicazione del mondo avanzato e anzi raggiunge più persone in diversi luoghi del mondo.

The Laboratory of the Future ricorda, per molti versi, la Biennale d’arte 2015 targata Okwui Enwezor, il grande curatore afroamericano che fu direttore di Documenta11 nel 2002 e che è prematuramente scomparso, a partire dal titolo “All the World’s Futures”. Anzi a ben vedere suona come un omaggio a una figura premonitrice e veggente rispetto all’imminente spostamento di equilibri sul pianeta. Pianeta che a pochi anni di distanza appare sempre più disastrato: giusto quindi che gli architetti si occupino in primo luogo di etica – il tema, peraltro, lo aveva già intuito Massimiliano Fuksas nel 2000 con la sua Biennale “Less Aesthetics, More Ethics” – di sostenibilità, di riuso, insomma di tutti quei temi che costituiscono la colonna portante della cultura contemporanea e attraggono in particolare i giovani studiosi che rispetto a noi vorrebbero un mondo migliore e più equo. Tutto ciò ha per conseguenza il netto abbassamento dell’età media dei partecipanti alla Biennale e il lavoro per gruppi invece delle grandi individualità che hanno caratterizzato i decenni scorsi.

Credits: Biennale Architettura Venezia

A Venezia sono passati da David Chipperfield a Rem Koohlas, da Norman Foster a Kazuyo Sejima, dal 1996 in poi – con Hans Hollein – è stato a lungo il trionfo dell’archistar, finché tale figura pubblica e riconosciuta, capace di intervenire in qualsiasi campo, dalla progettazione alla moda, dalla politica alla società, è stata messa in crisi dalla nomina di Alejandro Aravena nel 2016, il primo a spostare l’asse così in avanti verso altri sguardi.

Lokko è figlia di questo percorso che insiste su un’idea di architettura ibrida e con un pensiero molto nobile sullo sfondo: l’architettura deve cambiare il paesaggio modificandone il paradigma. Ripartire da zero, o quasi, sovvertire l’ingaggio culturale in cui le questioni sociologiche facciano da preambolo per individuare altre soluzioni.

Credits: Biennale Architettura Venezia

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