Connessioni viveElisabetta Foradori, in nome della diversità

Nel territorio trentino del «Teroldego», la viticoltrice e la sua famiglia tracciano la strada verso un’agricoltura che parla di natura, spontaneità e condivisione

Photo credit: triplea.it

«Una custode della terra» è così che si definisce Elisabetta Foradori, parlando del suo territorio: tra il Trentino e l’Alto Adige. Siamo nel comune di Mezzolombardo, nel cuore del Campo Rotaliano: una pianura alluvionale plasmata dal fiume Noce, di forma triangolare, con un’estensione pari a quattrocento ettari, protetta nei tre lati dalle possenti Dolomiti. L’azienda agricola fu fondata qui, nel 1901, acquistata poi successivamente nel 1939 da Vittorio Foradori. Ebbe così inizio l’attività di famiglia, avviata tuttavia ufficialmente soltanto nel 1960, con la prima produzione «Foradori» a opera del figlio Roberto. Dopo la sua scomparsa nel 1976, fu la moglie Gabriella a occuparsi dell’azienda per poi lasciarne le redini a Elisabetta, nel 1984. Neo-enologa e ventenne, si ritrovò a occupare una posizione d’eccezione nel panorama vitivinicolo italiano, allora ancora dominato dagli uomini, oggi cambiato. Come lei stessa racconta: «Eravamo ancora solo quattro/cinque donne in Italia a metterci le mani. Ora intorno a me ci sono decine e decine di grandi produttrici di vino e questo è un primo grande passo». Continua: «Al di là dell’essere “donna” è proprio mettere un sentire diverso dentro questo atto agricolo, nel produrre l’uva, ma anche nella trasformazione». Elisabetta ne è l’esempio: guida infatti l’azienda verso un nuovo modo di pensare e di fare agricoltura, convertendola nel 2002 alle pratiche della biodinamica.

Il primo passo è stato imparare l’arte di ascoltare, cioè: «assecondare il messaggio che la terra ci vuole dare in quel momento»; conoscere i suoi ritmi e cicli; comprendere i suoi processi vitali. Infine, riconoscere la natura quale sistema di macro e microcosmi interconnessi tra loro, «pulsante di vita» animata da microrganismi. A supportare e incrementare tale attività microbiologica è però l’attuazione di determinate pratiche: una buona gestione del suolo e l’utilizzo di preparati biodinamici che, catalizzando le forze solari al terreno, giovano al suo nutrimento e benessere. Non si parla quindi tanto di un intervento dell’uomo sulla natura quanto di una sua interazione con questa. Ciò è quanto Elisabetta e il marito Rainer Zierock hanno compiuto sin dall’inizio, lavorando con il fine di «favorire e accompagnare la pianta», aiutarla a raggiungere il giusto equilibrio. Questa riuscirà così ad autodifendersi da sola e ad adattarsi all’insorgere di nuove condizioni climatiche e ambientali. Un’operazione che a casa Foradori è stata applicata prima di tutto sulla vite, a partire dalla sua osservazione. Ogni esemplare ha infatti un portamento diverso, germogli più o meno vigorosi, segnali del suo stato di salute. Prestare attenzione a questi dettagli, ha orientato l’attività familiare verso un corretto agire, dettato dalla sperimentazione di diverse pratiche in campo. Rispettivamente: una potatura meno invasiva; la reintroduzione degli animali nella gestione del territorio; la cura del manto erboso dell’interfilare, seminando erbe diverse e lasciando fiorire quelle spontanee. La loro applicazione ha reso la vigna più ricettiva e ha portato alla rinascita della natura in sé. Merli, tordi e fringuelli sono tornati a nidificare tra le foglie delle viti; farfalle, api e insetti a popolare i prati in primavera.

Parliamo di biodiversità, una diversità che nell’azienda non si riscontra solo nella popolazione animale, ma anche in quella vegetale, nei caratteri della pianta. Con la tecnica dell’autofecondazione, i Foradori sono riusciti infatti a ottenere dei segreganti: viti con caratteristiche simili a quelle generali del vitigno, ma con tratti genetici nuovi, non presenti nell’espressione fenotipica di partenza. Si ottiene così una «variabilità nascosta del vigneto», riscoperta in azienda a partire dal «Teroldego». Elisabetta non è soprannominata «signora del Teroldego» per caso. A lei e a Rainer si deve infatti il recupero di questo vitigno autoctono della Piana Rotaliana e la ricostruzione della sua variabilità genetica, riconoscibile all’assaggio del loro vino «Foradori», Teroldego Vigneti delle Dolomiti Igt. Un’ ulteriore diversità percepibile nel bicchiere si deve tuttavia anche all’appezzamento in cui il vitigno è piantato. Ogni parcella si rivela infatti differente in base alla sua distanza dall’antico alveo del fiume. I suoli di predominanza sassosa, ghiaiosa o sabbiosa sono la componente comune. A variare sono invece elementi quali intensità, forza, profondità, fittezza, insieme a mineralità, freschezza ed eleganza. Combinati insieme, questi rendono però indistinguibile il Teroldego, espressione del territorio. Da lui, soprannominato “Principe del Trentino”, oltre al «Foradori», l’azienda realizza: «Granato», specchio della tradizione trentina e «Morei, Sgarzon e Lezèr», vini prodotti invece secondo una visione nuova e sperimentale. Sulla collina di Trento, a Fontanasanta, viene coltivato l’altro vitigno autoctono, il «Nosiola», insieme al «Manzoni Bianco», mentre nei pressi di Mezzolombardo il «Pinot Grigio». Da questi si ottengono rispettivamente: «Fontanasanta Manzoni Bianco»; «Fontanasanta Nosiola»; «Fuoripista Pinot Grigio».

Tutti i vini, per quanto diversi, sono realizzati con la stessa filosofia e obiettivo: preservare «le forze di vita del frutto originario», dando vita a un prodotto che possa «restituire la percezione del luogo di origine». Pertanto, non viene attuato nessun intervento correttivo in cantina. Vengono utilizzati solo lieviti indigeni e non si controllano le temperature di fermentazione. Non si aggiungono solfiti se non eventualmente dopo il primo travaso, avendo non più di 30mg/l di anidride solforosa totale nel prodotto finale. La vinificazione può avvenire in contenitori di cemento, terracotta (tinajas) o in botti e tini di legno, di acacia o rovere, materiali diversi ognuno dei quali restituisce al vino una sua impronta. Questo viene poi imbottigliato senza essere filtrato. Quanto si ottiene è un vino spontaneo, espressivo, di personalità. È un vino vivo, che nel calice «pulsa», cambia, evolve con il tempo, come ha fatto l’azienda Foradori. Come racconta infatti Elisabetta: «Dentro a un’azienda biodinamica, oltre al ciclo chiuso, ai preparati, a fare il compost, c’è proprio la visione di dare vita a qualcosa di più completo». Un desiderio che lei, produttrice, donna e madre, è riuscita a realizzare grazie all’arrivo di tre dei suoi quattro figli in azienda. Il primo è stato Emilio nel 2012, oggi responsabile della produzione dei loro attuali 25,5 ettari vitati. Dal 2016 il fratello Theo lo affianca nella gestione delle attività commerciali. Nel 2019 si è aggiunta la sorella Myrtha, integrando la produzione orticola, giungendo a coltivare oggi ben trenta diverse varietà. Infine, due anni fa, Elisabetta insieme all’assistente Irene hanno avviato una produzione casearia, a partire dal latte ricavato dall’allevamento di sei mucche di razza Grigio Alpina. Questa diversificazione aziendale non nasce però solo dalla biodinamica, ma anche sulla base di un altro dei pilastri identitari dell’azienda Foradori. Parliamo della condivisione, o meglio della collaborazione con altri piccoli agricoltori, provenienti da altri settori agricoli. Come sottolinea infatti Elisabetta: «A parte le alleanze tra viticoltori, è essenziale cercare di creare delle sinergie con un mondo agricolo che per disponibilità economica, mancanza di tempo, sta là, 360 giorni all’anno e ha meno possibilità». Pertanto: «Il mondo agricolo che parla con le Triple A ha bisogno di fare alleanze». Un mondo di cui l’azienda Foradori fa parte ormai da anni e che, come riconosce la viticoltrice, deve unirsi per colmare la voragine che si sta creando con il sempre più potente settore industriale delle grandi produzioni. Per Elisabetta il futuro è questo: riconoscere al vino il dovere e la responsabilità di portare la gente ad assaggiare anche altri prodotti agricoli: formaggi, verdure diverse, non per forza della propria produzione. Pensare cioè a un movimento agricolo unito, sinergico, diversificato, che imiti la natura nel suo essere «fatta di variabilità».

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