Il primo fattore per capire la politica interna dei Balcani orientali contemporanei è di natura storica, perché la fine dei regimi autoritari in questi paesi ha determinato un rigetto dell’ideologia comunista. Però l’affermazione va soppesata: rigetto non significa fine o scomparsa. La più grande imprecisione raccontata da media e analisti politici negli ultimi trent’anni è che le ideologie politiche siano finite con il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica. Sinistra e destra restano indicatori utili per distinguere le politiche progressiste da quelle conservatrici e le misure per l’uguaglianza da quelle di libertà individuale.
La fine del sistema comunista sovietico non ha reso obsolete le lotte per società più uguali, ma l’argomento è divenuto certamente un tabù in tutta Europa. L’ideologia resta fondamentale per comprendere la politica, ma media e pubblico si comportano come se, morta l’ideologia, non ci fosse più nulla di cui discutere tranne l’onestà, la personalità e la preparazione dei candidati. In questo desolante panorama intellettuale sono emersi prepotentemente i “tecnici”, burocrati che si fingono privi di opinioni politiche al fine di ottenere ruoli istituzionali.
Questa chimera parte dal presupposto infondato che una politica economica non abbia un orientamento politico. Il fatto che una legge finanziaria preveda misure che favoriscono la libertà d’impresa ma anche sussidi a favore delle fasce più deboli della popolazione non rende la politica economica “tecnica”, ma centrista. . Questa retorica è stata nociva, in primo luogo, per l’Unione Europea, accusata di essere strutturalmente iniqua, ma anche per i paesi dell’ex blocco comunista che hanno associato l’essere “europei” con i “popolari europei”.
Da un lato, queste circostanze hanno variamente rafforzato i partiti demagogici e, dall’altro, reso impossibile l’emergere di partiti di sinistra moderni. In Bulgaria, Romania e Repubblica di Moldova gli unici partiti di sinistra rilevanti sono gli eredi dei regimi autoritari antecedenti al 1991, che, sebbene abbiano abbandonato le lotte egualitarie, hanno mantenuto tendenze autoritarie, orientamenti di politica estera discutibili e predisposizione alla corruzione. La loro esistenza resta giustificata dal permanere di una parte di elettorato che continua a votare per identità di classe, inconsapevole o insensibile agli scandali che li colpiscono. (…)
La questione vincolante che dal 1992 allontana la Repubblica di Moldova dall’UE è il conflitto irrisolto della Transnistria. La Federazione Russa “ha usato” con successo la regione separatista per impedire l’integrazione moldava nell’Unione Europea. Lo stesso vale quando si parla di Abcasia e Ossezia del sud in Georgia, o di Crimea in Ucraina. Non è un caso che Repubblica di Moldova, Ucraina e Georgia siano messe spesso sullo stesso piano rispetto alle negoziazioni con l’UE. Eppure, fino al 2003 inoltrato, la Repubblica di Moldova non aveva mostrato nessun particolare interesse verso l’UE. Inoltre, tra il 2000 e il 2009 il paese è stato governato in maniera autoritaria dal leader dei comunisti di Moldova Vladimir Voronin, apertamente filorusso.
La svolta avvenne nel 2003, quando la Federazione Russa presentò il Kozak Memorandum per la risoluzione del conflitto in Transnistria. Il “Progetto di memorandum russo sui principi di base della struttura statale di uno stato unito in Moldova” prevedeva la creazione di una Repubblica Federale di Moldova in cui l’assetto istituzionale bicamerale dava poteri sproporzionati a un senato dove i rappresentanti delle regioni autonome di Gagauz Yeri (Gagauzia) e Transnistria (rispettivamente 4 e 14% della popolazione totale del paese) potevano bloccare le iniziative legislative della maggioranza.
Oltre a questo, il memorandum prevedeva la presenza di truppe russe sul territorio della Transnistria fino al 2020 e l’impegno da parte moldava a rimanere fuori da alleanze difensive (un evidente riferimento alla NATO). Inizialmente incline ad accettare il memorandum, il presidente filorusso Vladimir Voronin fu probabilmente convinto dalle proteste popolari che scossero Chișinău: nel 2005 rigettò ufficialmente il memorandum sostenendo che violava la Costituzione del paese.
Se da un lato la Federazione Russa ha sempre proposto un rapporto ineguale alla Repubblica di Moldova, i partner europei, e la Romania su tutti, si sono proposti come interlocutori alla pari. Dal 2010 le coalizioni pro-europee che hanno governato il paese non hanno fatto altro che avvicinare la Repubblica di Moldova all’Unione Europea.
Nel 2014 l’Accordo di Associazione, completato da quello di «libero scambio globale e approfondito» (DCFTA), sostituì quello di partnership e cooperazione firmato nel 1994. In quell’anno la Repubblica di Moldova ottenne anche un regime senza visto per visite a breve termine nell’Unione Europea, raggiungendo quello che si riteneva essere l’apice delle loro relazioni. Invece, l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 ha accelerato il processo di integrazione europea ucraino e moldavo: il 23 giugno entrambi i paesi hanno ricevuto lo status di paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea.
Da “Capire i Balcani orientali” di Gian Marco Moisé, Bottega Errante Edizioni, 176 pagine, 18 euro