Siamo tutti podcasterLo sciopero degli sceneggiatori e la discrasia tra successo percepito e tornaconti reali

La saturazione di contenuti del Grande Indifferenziato, con conseguente abbassamento dei budget, crea il problema di pagare adeguatamente gli autori: una questione forse irrisolvibile in un mondo in cui tutti sono convinti di essere gli unici il cui talento valga compensi novecenteschi

AP/Lapresse

A un certo punto di questo articolo, che parlerà dello sciopero degli sceneggiatori americani in atto da martedì, vi verrà il dubbio che vi abbia truffati, e che stia scrivendo la continuazione dell’articolo dell’altro giorno sui podcast, che con tanta serenità è stato accolto dai poco ricchi operatori del settore. Forse è un dubbio fondato, chissà.

Tanto per cominciare, «sceneggiatori» è una parola imprecisa, indicando in italiano solo coloro che scrivono film o, appunto, sceneggiati televisivi. In inglese «writers» include anche coloro che scrivono per la tv scritta, quella che non è fatta di reality, e infatti da martedì i programmi di tarda serata – Colbert, Fallon, Kimmel: quella roba lì – hanno sospeso le trasmissioni.

E qui tocca dire qualcosa sugli americani, il popolo più ottuso e ignorante e con meno senso delle priorità del mondo, gente che pensa i diritti siano questioni che hanno a che fare con la percezione e non col reddito. Gli americani non sanno di cosa parlano quando parlano di sciopero.

I commenti allo sciopero degli autori sono incredibili. Da destra, gente che si sente furba perché dice «ah, Colbert senza autori non va in onda, quindi è un pirla non in grado di scriversi quattro battute da solo»: no, imbecille, non va in onda perché quelli che lavorano boicottando gli scioperi si chiamano crumiri, lo sapresti se vivessi in una nazione che ha un’idea seppur vaga dei diritti dei lavoratori.

Da sinistra, peggio mi sento, autori indignati perché Fallon non ha obiettato quando la Nbc ha annunciato che se scioperavamo non ci pagava: come credevi fosse fatto, uno sciopero, stellina? Pagarti per non lavorare non è sciopero: è malattia, o ferie, o congedo di maternità – tutti concetti che conosceresti se vivessi in una nazione che ha un’idea seppur vaga dei diritti dei lavoratori.

L’ultima volta che gli autori della tv e del cinema americani hanno indetto uno sciopero era il 2007 e – sembra sette secoli fa – il problema erano i dvd. Coloro che scrivevano i film volevano rinegoziare la percentuale ottenuta una volta che i film finivano in dvd, che all’epoca erano il modo con cui guardavamo i film a casa.

Restarono in sciopero tre mesi, e una delle conseguenze veniva ricordata, come monito, su un cartello dei picchetti di sciopero in questi giorni: nell’anno successivo ci fu molta tv unscripted, non danneggiata dallo sciopero degli autori, e uno di quei programmi era la versione per famosi di The Apprentice. Sì, quella con Donald Trump.

Adesso, il problema sono le piattaforme. Che, mi pare che qualcuno l’abbia scritto qui pochi giorni fa, non hanno numeri ufficiali: non si sa se la serie che scrivi la vede solo tuo cugino o decine di milioni di spettatori, la piattaforma non te lo dice, e quindi tu non hai guadagni proporzionati al successo delle repliche.

Il rapporto di chi fa lavori veri con il concetto di diritto d’autore è molto interessante. L’anno scorso ho letto una lunare (ma probabilmente perfettamente normale per chi fa lavori veri) discussione tra americani che – si parlava di libri – sostenevano che le royalties non avessero senso: scrivi un libro, ti pagano il lavoro che fai, che venda dieci copie o un milione non ha senso che tra dieci anni continui a incassare diritti per un lavoro che hai fatto dieci anni prima.

Il che, vi confesso, non mi sembrerebbe del tutto insensato (un chirurgo mica lo pagano di più se il suo paziente sopravvive più a lungo).

Però c’è un problema che nessuno dei dibattenti poneva. Un libro che continua a vendere continua a generare profitti: se chiedi che non vadano all’autore, stai chiedendo che se li tenga tutti l’editore? (Che comunque se li tiene già quasi tutti, lo dico per quando prenderanno la Bastiglia delle royalties: ricordatevi di decapitare prima gli editori e solo molto dopo gli autori).

Questo per dire che non sono sicura che il pubblico simpatizzi con sceneggiatori irritati dal fatto che, in assenza di riscontri numerici visibili, non ci sia la possibilità d’incassare i frutti del proprio successo. Ma sono abbastanza sicura che non simpatizzi con quell’entità astratta che sono i multimiliardari proprietari di piattaforme, gente che somiglia ai protagonisti di “Succession” nella mancanza di etica ma non nei dialoghi brillanti (quasi quasi è più facile che simpatizzino con gli editori, in fondo poricristi che fanno libri, cascami novecenteschi).

Sono però piuttosto certa che non sia una questione risolvibile: il problema principale del rendere visibili i numeri non è mica che poi devi pagare gli sceneggiatori del “Racconto dell’ancella” quanto pagavi quelli di “Friends”. Il problema del rendere i numeri visibili è che le piattaforme, esattamente come i podcast, vivono di suggestione, di successo percepito, di ruolo nella conversazione collettiva.

Se sveli i numeri poi, sì, puoi non pagare gli sceneggiatori del titolo di cui tutti parlano, perché si scopre che tutti ne parlano ma mica nessuno lo guarda; ma, se sveli che le cose di cui tutti parlano nessuno s’incomoda a guardarle, ti si rompe il giocattolo.

Il New Yorker, nel raccontare la settimana scorsa l’imminente sciopero, ha citato il più famoso telegramma della storia di Hollywood, quello che Mankiewicz scrisse a Ben Hecht sollecitandolo a trasferirsi presto lì: «Ci sono milioni da arraffare e la concorrenza è costituita da idioti». Solo che non è più così, pare. Perché le piattaforme nessuno le guarda? Anche (un concetto di cui si lamentano assai gli autori, mutilati nella loro creatività, è la richiesta di second-screen content: idee per serie o film che puoi far andare mentre stai al telefono o fai altro); ma non solo. C’è anche il fatto che le piattaforme tutti le fanno.

C’è una saturazione di contenuti (come adesso si chiamano, nel Grande Indifferenziato, i libri e i podcast e i film e la tv e le tutte cose), e questa saturazione la si ottiene abbassando i budget. Se devi produrre cento serie, non ti possono costare ognuna quanto costava un prodotto della tv di quando c’erano tre canali. Un canale visto da decine di milioni di persone – alle quali facevi vedere lo stesso spot dei biscotti per il passaggio del quale l’azienda di biscotti ti dava milioni di dollari – aveva un’economia che una piattaforma il cui intero archivio posso guardare per un mese a dodici dollari non avrà mai: non c’è un modo di far tornare i conti, neanche riformando la matematica.

È, in più d’un senso, la stessa cosa che è successa nei giornali. Certo che centinaia di trentenni italiani scrivono per testate che li pagano due lupini e un’oliva; ma, nell’economia novecentesca la cui gloria essi credono d’aver mancato per un soffio, plausibilmente non sarebbero stati la Fallaci o Pansa. Plausibilmente sarebbero stati giovanotti col sogno del giornalismo che impilavano scatolette di tonno nel negozio d’alimentari al paesello.

La saturazione del mercato, con conseguente abbassamento dei budget, è ciò che permette alle zie rimaste al paesello di dire oggi quel che non avrebbero potuto dire nel Novecento: mio nipote scrive sul giornale. La discrasia di successo percepito e tornaconti reali è quella rovazziana di «ho milioni di views ma vivo in un monolocale», ma anche quella dello sceneggiatore di “The Bear” che va a prendere il premio per la serie di cui tutti parlano indossando un farfallino preso a credito perché è sotto in banca. È un’economia che non basta per tutti, ma esigiamo che basti per noi.

Siamo tutti mitomani, e convinti d’essere l’eccezione: noi, proprio noi, gli unici il cui talento valga compensi novecenteschi. E invece, del telegramma a Hecht, non valgono più i milioni da arraffare, ma vale ancora la valutazione della qualità media di coloro che ambiscono.

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