Quella di Peter Pan è una «storia senza tempo, di ieri come di domani». È la storia di Peter Pan che lotta contro il malvagio Capitan Uncino nell’isola che non c’è: un luogo dall’incantevole bellezza dove i bambini non crescono mai e possono continuare a esserlo giocando tra pellirosse e sirene.
Se dovessimo spiegare ai nostri figli e ai nostri nipoti la storia e il presente dell’Italia, e del suo futuro possibile, potremmo partire proprio da qui, da Peter Pan e dall’isola (anzi penisola) che non c’è, bellissima eppure decadente, dove la lotta tra il bene e il male, tra la voglia di cambiare e la resistenza a farlo sembra intrappolata in un vuoto temporale, senza procedere in alcuna direzione.
Essere parte del gioco diventa, quindi, il suo stesso fine, senza un punto d’arrivo e una direzione. In una storia senza tempo non c’è infatti bisogno di investire e darsi da fare, di comprendere al meglio il passato e di preoccuparsi del futuro. Se rinunciamo a crescere e rifiutiamo di prenderci sul serio o di riconoscere che il nostro destino può essere favorito o contrastato, nonostante il ticchettio dell’orologio nel coccodrillo che lo ha ingoiato assieme a una gamba del proprietario nell’attesa di mangiarsi anche il resto. Se rinunciamo ad assumerci le nostre responsabilità, lasciando inevitabilmente le colpe ad altri, allora la storia senza tempo di Peter Pan rischia di divenire un incubo che non ci fa vivere al meglio il presente dell’isola, da cui diventa quasi impossibile sfuggire, nell’illusione che c’è ancora tempo per cambiare e per assicurare un futuro migliore ai nostri figli. A loro volta desiderosi di crescere per lasciare un’eredità importante alle generazioni future. Come rappresentanti pro tempore della specie umana.
La magia di Peter Pan, dell’uomo adulto che torna a essere capace di sognare e di riprendere (nel mondo della fantasia) a volare, diventa per noi la sindrome dell’eterna promessa, delle potenzialità inespresse, del talento non ancora maturo, della creatività che non si scarica a terra, di un Paese grande che rinuncia ad autodeterminarsi e a divenire un grande Paese, lottando per un destino migliore. La sindrome di Peter Pan trasforma la grande bellezza della penisola che non c’è nella decadenza di un Paese sciupato, di un popolo che vive alla giornata, uccidendone la speranza dopo averne assopito il carattere.
Forse l’Italia è già oggi un poco l’isola che non c’è, dall’incantevole bellezza e dove è ancora possibile, chiudendo gli occhi, tappandosi il naso e le orecchie, illudersi di poter non crescere mai e di rimanere bambini, tra i pellirosse e le sirene, non assumendosene la responsabilità o dando troppo facilmente le colpe ad altri: la classe politica, la congiuntura internazionale, i molti cigni neri (gli eventi estremi negativi) che hanno caratterizzato l’economia globale degli ultimi anni.
Parlare di «grande ricchezza» in Italia suscita oggi grande interesse accademico e stimolo intellettuale. Ma al di là delle facili affermazioni, data la difficile congiuntura economico-sociale-ambientale che stiamo effettivamente vivendo, ci siamo mai chiesti davvero quali sono i punti critici e le implicazioni civiche delle nostre scelte di lavoro, consumo, risparmio e investimento, che un serio dibattito dovrebbe mettere in evidenza? Con «grande ricchezza» facciamo, infatti, riferimento alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane: a quella attuale e anche a quella potenziale, largamente intangibile e tuttavia disponibile per cambiare il Paese verso più alti futuri, in grado di guidarlo verso obiettivi di sostenibilità. Per uscire dal gioco e diventare grandi.
Per parlare di «grande ricchezza» (e di sostenibilità) possiamo farlo in due modi. Il primo è con commenti generici, buoni a tutto e utili a niente, seguiti da dichiarazioni d’intento nazionalpopuliste e indicazioni tanto qualitative quanto superficiali che ci vogliono convincere del perché le cose vanno benino e andranno sempre meglio; ovvero, del perché vanno male, ma sono facilmente indirizzabili. Nell’eterna diatriba delle schermaglie tra Peter Pan e Capitan Uncino, la discussione porterebbe a ben poco rispetto alla urgente e prioritaria (oltre che opportuna) ricerca di una verità sufficientemente oggettiva da diventare «azionabile» e che possa condurre quindi a impatti tangibili, in linea con l’obiettivo che è anche il tema centrale di questo libro: la scelta di investire oggi – e bene – in Italia. La seconda modalità è seguendo un approccio diverso, quello micro-fondato.
Da “Investire bene in Italia”, di Claudio Scardovi, Egea Editore, p. 312, 27.99 euro