Che il nostro sia ancora un Paese per vecchi lo dimostrano le statistiche. L’Italia è lo Stato europeo con il più alto numero di Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), giovani dai quindici ai trentaquattro anni che non lavorano e non studiano. Nel 2020, secondo i dati Istat, erano più di tre milioni, con una prevalenza femminile di 1,7 milioni. L’incidenza dei Neet raddoppia al Sud rispetto al Nord ed è maggiore tra le donne. In alcune aree del paese, in particolare nel Mezzogiorno, la percentuale sfiora addirittura il trenta per cento. A livello europeo, se si considera la fascia 15-29 anni stabilita dall’Unione europea per identificare il fenomeno, l’Italia registra il tasso più alto (23,1 per cento), contro una media del 13,1 per cento per i ventisette Paesi dell’Unione. Una percentuale rimasta invariata nell’ultimo decennio e molto lontana dall’obiettivo fissato da Bruxelles per il 2030, che prevede una riduzione al nove per cento.
Nel recente decreto Lavoro, approvato il 1° maggio, il governo Meloni ha provato a mettere una pezza a questo annoso problema. Dal 1° giugno al 31 dicembre 2023, i datori di lavoro che assumeranno giovani Neet, riceveranno un incentivo fino al sessanta per cento della retribuzione mensile, valido per dodici mesi. Secondo il Sole24Ore, ci sono oltre 1,6 milioni di giovani che possono beneficiare di questa misura, il diciannove per cento della popolazione dei 15-29enni. Nella relazione tecnica che accompagna il decreto legge si stima che nel 2023 la misura potrebbe favorire circa settantamila nuove assunzioni di giovani under 30. Tra queste, il cinquantasei per cento (trentanovemila giovani) con un contratto stabile o di apprendistato professionalizzante, per una retribuzione media mensile (calcolata sul 2021) di milletrecento euro.
Nello specifico, il bonus sarà valido per le assunzioni a tempo indeterminato, per somministrazione e per il contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere, tranne che per i rapporti di lavoro domestico. Inoltre, potrà essere cumulato con l’incentivo per assumere giovani under 36 previsto dalla legge di Bilancio per il 2023 e con altri esoneri o riduzioni delle aliquote già previste da altre disposizioni, ma in questo caso il bonus scenderà al venti per cento della retribuzione mensile lorda.
La misura, seppur mossa dalle migliori intenzioni, rimane un provvedimento tutt’altro che strutturale. I fondi in dotazione, ottanta milioni di euro per il 2023 e 51,8 milioni per il 2024, sono ancora troppo pochi per contrastare un fenomeno di così ampia portata.
D’altra parte anche gli scorsi governi si sono scontrati con il problema e hanno provato ad affrontare il fenomeno dei Neet attuando politiche che però si sono sempre rivelate poco efficaci, come il Piano Neet Working, un progetto avviato dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nel 2019 e il più interessante programma operativo nazionale Iniziativa occupazione giovani (che ha implementato il piano europeo Garanzia giovani e terminato nel 2020). Il programma prevedeva l’offerta di percorsi di formazione, tirocini formativi e sostegno all’inserimento lavorativo per i giovani che si trovavano in questa situazione. Inoltre, sono stati messi in campo strumenti come i voucher formativi, i bandi regionali per l’inserimento lavorativo.
Ovviamente per contrastare un fenomeno del genere c’è bisogno di un piano di lungo corso, e i finanziamenti più mirati, come quest’ultimo deciso dal governo Meloni, vanno accompagnati a un più ampio piano di ristrutturazione economica e sociale che ha come punto fondamentale i finanziamenti alla scuola e all’università per evitare la dispersione scolastica: fenomeno legato a doppio filo con quello dei Neet. Ma anche la parità di genere, l’inclusione sociale, il contrasto alla povertà e al lavoro in nero. Il problema però è che dopo l’impatto della Grande recessione del 2008-13 il nostro Paese ha consolidato ulteriormente il suo posizionamento sui livelli peggiori in Europa sia in termini di bassa natalità, che in termini di disoccupazione giovanile e la crisi sanitaria causata da Covid-19 ha ulteriormente aggravato questo record negativo. Ci troviamo intrappolati, quindi, nel paradosso di giovani che risultano essere sia una risorsa scarsa che sottoutilizzata.
Il termine Neet è stato reputato da alcuni ricercatori del settore della ricerca socio statistica e demografica come una categoria troppo ampia, che non coglie a pieno le differenze sfaccettate del gruppo dei giovani che non studiano e non lavorano. Originariamente il termine era usato negli anni Ottanta nel Regno Unito per le giovani ragazze in gravidanza precoce, ma nel tempo ha acquisito un significato più ampio e si è diffuso come una sorta di espressione convenzionale per indicare una condizione giovanile diffusa. Come spiega la professoressa Giustina Orientale Caputo in un recente report di Actionaid e Cgil, l’uso sempre più frequente del termine Neet da parte di organizzazioni statistiche come l’Istat ed Eurostat gli ha conferito una certa legittimità scientifica, mentre l’uso mediatico del termine, utilizzato per descrivere un’intera generazione (si parla addirittura di «generazione Neet»), ha suscitato interesse verso il fenomeno, facendolo diventare un tema importante, ma finendo per produrre alcune semplificazioni. Utilizzare il termine per etichettare il comportamento di un’intera generazione è un grave errore, perché finisce per spostare la responsabilità di questa crisi sociale da chi non è stato in grado di contrastarla, ai giovani stessi, considerati in alcuni casi troppo pigri e choosy, ovvero poco propensi al sacrificio e all’impegno.
«La categoria Neet non rappresenta un nuovo fenomeno e non fornisce informazioni statistiche aggiuntive – continua la professoressa – ma ha invece ridefinito i giovani raggruppando informazioni relative all’occupazione e alla formazione scolastica o professionale». Infatti, sebbene il termine indichi giovani che al momento della rilevazione non sono occupati, non studiano e non sono impegnati in alcun altro tipo di formazione, non sappiamo nulla riguardo al loro comportamento sul mercato del lavoro. Infatti, un Neet potrebbe essere un soggetto attivamente alla ricerca di lavoro, che non è ancora riuscito a trovare un’occupazione, o un soggetto che ha smesso di cercare lavoro per ragioni diverse. Entrambi i profili rientrano nella definizione di Neet e quindi, a meno che non sia ulteriormente specificato, il mero dato statistico fornisce informazioni limitate sui giovani. Dunque, conclude la professoressa, «si potrebbe dire che in termini statistici il dato sui Neet, se non ulteriormente definito, dice meno di quello che dei giovani si sa già».
Il quadro dipinto dal report è davvero a tinte fosche. In chiave descrittiva è interessante evidenziare come i Paesi europei con più alta percentuale di Neet siano anche quelli con maggior permanenza nella casa dei genitori e maggior rinvio dei progetti di vita. Secondo i dati dell’Eurostat nel 2021 abbiamo fatto un piccolo passo in avanti: l’età media dei giovani italiani tra i diciotto e i trentaquattro anni che vanno a vivere da soli è scesa dai poco più di trenta anni a 29,9 anni, tuttavia siamo ancora ben al di sopra della media Ue, che si attesta a 26,5 anni, e lontanissimi dai diciannove anni della Svezia e dai 21,2 della Finlandia.
Secondo gli esperti la relazione causale è bidirezionale: dove la famiglia di origine funziona come ammortizzatore sociale (senza troppa pressione all’uscita) la responsabilizzazione e l’intraprendenza dei giovani potrebbe essere più tardiva, ma è evidente anche che l’accentuazione delle difficoltà oggettive e dei colli di bottiglia che si creano nel collegamento tra istituzione educative e mondo del lavoro porta i giovani a diventare parecchio cauti e rimanere più a lungo a carico dei genitori.
Se analizziamo il tema della situazione dei giovani in Italia in relazione al mercato del lavoro, emergono alcuni elementi evidenti che caratterizzano il nostro Paese da almeno quarant’anni come poco attento alle nuove generazioni. Infatti, l’inserimento lavorativo dei giovani è da sempre stato un problema cronico del mercato del lavoro italiano. Nonostante la questione della disoccupazione giovanile sia stata affrontata da quasi tutti i Paesi europei negli ultimi trent’anni, l’Italia continua ad apparire come un caso unico in negativo