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In un discorso tenuto al convegno del Conservative Political Action Committee, che si è tenuto a Dallas nell’agosto scorso, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha sottolineato l’importanza dell’anno 2024 in cui si svolgeranno sia le elezioni presidenziali americane sia le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. E ha parlato di questi due eventi come se non fossero altro che due diversi fronti di una sola guerra – una guerra sui valori. «L’Occidente è in guerra con se stesso», ha detto Orbán, parlando a un pubblico formato da sostenitori della destra Repubblicana. «Dobbiamo fare amicizia e allearci gli uni con gli altri. Dobbiamo coordinare i movimenti delle nostre truppe, perché dobbiamo affrontare la stessa sfida».
Il discorso di Orbán mostra con chiarezza una peculiarità sorprendente del nazionalismo contemporaneo: il suo carattere internazionale. Nel passato, i partiti nazionalisti di diversi Paesi, dall’Italia alla Svezia, erano soliti proporre l’uscita dall’Unione europea, dall’euro e dalla Nato; ora, invece, quasi tutti quei partiti riconoscono che in un mondo sempre più ostile il far parte di queste istituzioni offre ai rispettivi Paesi un livello di sicurezza economica e militare che sarebbe impossibile ottenere rimanendo fuori da quelle organizzazioni. E, dal momento che il far parte di questi organismi multilaterali richiede un coordinamento tra i vari Paesi, ecco che per i nazionalisti acquista senso collaborare con gli altri politici che condividono le loro stesse visioni in una lotta paneuropea per definire un certo modello di Europa.
Lo stesso Orbán precisa di voler difendere un’identità culturale europea – e non specificamente ungherese. Il premier magiaro è spesso caratterizzato sui media anglosassoni come “antieuropeo”. E questo è un errore. Lui non è affatto antieuropeo. Lui è contro quella che ritiene essere una propensione liberale delle istituzioni dell’Unione europea. Nella sua stessa autopercezione, Orbán non è più antieuropeo di quanto siano antiamericani i repubblicani che si scagliano contro la propensione liberal dell’establishment di Washington. Al contrario, lui si considera come colui che conserva la vera fiamma dell’essere europei.
In entrambi i casi, il punto è che cosa significhi essere europei o americani. raduni che coinvolgono partecipanti provenienti da decine di Paesi diversi, come il meeting che si è svolto nel gennaio 2022 a Madrid, organizzato da Vox, il partito della destra populista spagnola, o l’edizione del Conservative Political Action Committee ospitata da Orbán a Budapest pochi mesi dopo – e intorno al quale Fox News si è prodigata con ore di trasmissioni piene di ammirazione.
Il supporto reciproco va ben al di là dello scambio di opinioni e di una copertura amichevole da parte dei media: un’istituzione ungherese di proprietà statale ha finanziato l’ultima campagna elettorale di Marine Le Pen per le elezioni presidenziali francesi per un importo superiore ai 10 milioni di euro.
Da parte sua, Steve Bannon, l’ex consulente strategico del presidente americano Donald Trump, ha tentato di organizzare, in un monastero italiano del Duecento (la Certosa di Trisulti, in Lazio, ndr), una specie di accademia d’élite per attivisti di destra – accademia che sarebbe stata esplicitamente e deliberatamente internazionale nelle sue aspirazioni e nelle sue ambizioni – finché l’allora governo italiano non l’ha fatta chiudere, ufficialmente per alcune irregolarità nella documentazione.
La scuola di Bannon si sarebbe chiamata Accademia per l’Occidente giudaico- cristiano e avrebbe cercato studenti secondo cui «la civiltà occidentale è minacciata ». Il nome di questa scuola ci dà qualche indizio su uno dei principali elementi di coesione tra questi diversi gruppi nazionalisti: molti di essi sono fedeli a un insieme di valori e a un senso dell’identità nazionale che possono essere descritti come “cristiani”.
In un discorso del 2019, Orbán ha affermato che l’Europa può essere salvata solo se ritornerà «alla fonte dei suoi veri valori: alla sua identità cristiana». Da parte sua, la nuova premier italiana Giorgia Meloni, alleata politica di Orbán, ha approfittato di un suo libro pubblicato nel 2021 per lodare il presidente russo, Vladimir Putin, per «la difesa dei valori europei e dell’identità cristiana». Da allora Meloni ha preso le distanze da Putin, ma non dai valori che aveva associato alla sua figura. E perfino nella più secolarizzata Francia Marine Le Pen insiste nel dire che i principi nazionali del suo Paese – liberté, égalité e fraternité – derivino in ultima analisi dal suo «retaggio cristiano».
Un modo in cui questa concezione dell’identità cristiana manifesta se stessa è l’ostilità nei confronti dell’immigrazione musulmana. Per certi versi, questa avversione per l’Islam è solo una distrazione – ed è forse un’eco atavica del fatto che per secoli la storia europea è stata definita dal conflitto tra cristiani e musulmani. In realtà, per i nazionalisti cristiani di oggi il vero “altro” non è l’Islam, ma la cultura contemporanea secolarizzata.
Questa cultura secolarizzata è chiaramente erede dell’età dei Lumi e delle correnti di pensiero che si diffusero nell’Europa del Settecento: di qui l’abitudine di riferirsi ai principi morali e sociali che essa sposa con la definizione di valori “illuministi”.
Sempre più spesso, senz’altro facilitata in questo dall’assenza di frontiere di Internet, la battaglia in corso tra i sistemi di valori “cristiani” e i sistemi di valori “illuministi” assume dappertutto forme simili, portando ovunque con sé gli stessi argomenti e gli stessi dibattiti. Questi sono perlopiù impostati nei termini della difesa della famiglia tradizionale contro le innovazioni che in qualche modo offendono la moralità cristiana – un menu ormai noto che include matrimoni tra omosessuali, adozioni da parte di coppie dello stesso sesso, aborto e diritti delle persone transgender, così come battaglie tra conservatori e revisionisti su come inquadrare il racconto della storia.
Da San Pietroburgo, in Russia, a St. Petersburg, in Florida, il nemico è identificato nell’ideologia woke e nella lobby LGBTQ+. E questo è il motivo per cui Orbán ha potuto salire sul palco a Dallas e parlare al pubblico in termini che chi lo ascoltava ha immediatamente e intuitivamente compreso. Questo mescolarsi dei dibattiti e dei conflitti che caratterizzano la vita politica nazionale con l’ambito, chiaramente separato, delle relazioni internazionali ha naturalmente un corrispettivo molto più tragico.
Spero che non sembri una banalizzazione di un’enorme tragedia umana il dire che talvolta la guerra in Ucraina sembra essere una grottesca estensione di queste “guerre culturali” in una vera guerra tra Stati.
Quelli che combattono dal lato della Russia si presentano come difensori della civiltà cristiana dalla depravata cultura secolare che ha messo radici in quello che chiamano “Occidente”. Questa è la base poggiando sulla quale il patriarca Kirill, capo della Chiesa ortodossa russa, si sente autorizzato a dare il suo esplicito ed entusiasta assenso alla guerra. Infatti, egli sostiene che i peccati dei soldati russi che muoiono combattendo in Ucraina saranno lavati via. E lo stesso Putin rimprovera il «palese satanismo» dei Paesi occidentali così come il loro «sovvertimento della fede e dei valori tradizionali».
Al contrario, gli ucraini e i loro sostenitori dipingono se stessi come combattenti che lottano tanto per i valori “illuministi” – e per le varie forme di libertà personale e nazionale che essi implicano – quanto per l’integrità territoriale dell’Ucraina.
Molte persone di destra, in Europa e in Nord America, sono riluttanti a condannare a voce alta il regime di Putin anche dopo l’invasione e ciò deriva, credo, dalla consapevolezza che, per certi versi, Putin sia della loro parte in questa guerra di valori. Ed è difficile non percepire il fatto che, per alcune di queste persone, il più grande crimine di Putin sia stato quello di aver fatto ricorso alla pura violenza, screditando così il loro progetto e consegnando ai loro antagonisti una significativa vittoria morale.
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