Nella divisione del lavoro, per così dire, culturale della Fratellanza meloniana, al cognato in chief Francesco Lollobrigida spetta la parte del cattivo e alla ministra ex radicale Eugenia Roccella quella della buona. Ma sempre di “poliziottismo” si tratta, avendo la destra post-fascista programmaticamente scelto di parlare del tema della famiglia, della natalità e della (tenetevi forte) identità italiana secondo lo stretto canone della post-verità, con un moralismo cospiratorio e colpevolistico dai bersagli tanto indeterminati, quando riconoscibili e volendo personalizzabili: la gay culture, il femminismo abortista, l’elitismo cosmopolitico e la xenofilia immigrazionista. I patrioti non li chiamano proprio così e tendono a riferirvisi in modo più rustico o allusivo: comunque questi sono i colpevoli.
Così al poliziotto cattivo Lollobrigida spetta di ricordare ogni due per tre – e pace per le polemiche – che il sangue non è acqua, che le tradizioni contano, che mogli e buoi dei paesi tuoi e che perfino la Treccani parla di etnia come «raggruppamento linguistico-culturale» e allora perché non lo può fare lui. Il tutto per riproporre in forma legittimata sia l’equiparazione dell’identità politica con quella etnica – un classico intramontabile del pensiero reazionario – sia per sdoganare in forma ripulita quel Protocollo dei Savi di Sion del sovranismo mondiale che è il Piano Kalergi, cioè un fantomatico piano di rimpiazzo demografico degli europei con asiatici e africani, ordito da sordide élite demoplutocratiche.
Se fino a pochi anni fa il Piano Kalergi era presentato nella destra in doppio petto e tailleur esattamente così, come una cospirazione mondiale che Meloni non aveva paura di intestare direttamente all’Unione europea e al “grande capitale” (cioè “all’usuraio” George Soros), oggi la grande sostituzione etnica viene più moderatamente descritta come un’inevitabile e prevedibile conseguenza del disarmo demografico indotto dal relativismo liberale. Insomma, sempre di dolo si tratta, ma eventuale.
Rimane però il fatto che l’equivalenza tra meticciato e dominazione e tra trasformazione etnica e disgregazione sociale viene riproposto proprio nei suoi termini fondamentali.
La poliziotta buona Roccella fa un lavoro culturalmente più sofisticato, agevolato certamente dalle buone letture e dalle frequentazioni radicali: rivendica di non essere affatto una femminista rinnegata, ma evoluta alla consapevolezza della trappola in cui il femminismo abortista e divorzista era caduto, nel momento in cui si era illuso di affrancare le donne dalla schiavitù maschilista subordinandole a un mainstream politico-sessuale sostanzialmente consumista.
Le riflessioni di Roccella, che per un verso fanno eco a quelle di un certo femminismo antagonista e per altro verso, più scopertamente, a quelle pasoliniane – la libertà sessuale come conformismo e nevrosi collettiva – avrebbero anche una loro dignità e un loro interesse, se non fossero diventate la semplice confezione di una paccottiglia reazionaria dozzinale sull’inverno demografico come prodotto dell’estinzione per consunzione dell’istituto familiare.
Visto che – questa è la tesi della ministra – la famiglia è stata distrutta dall’interno, attraverso la messa in discussione dei suoi ruoli e forme tradizionali e la sua estensione a unioni non riproduttive, allora la crisi politica della “famiglia naturale” ha comportato come conseguenza la crisi della natalità. In questo quadro l’aborto viene naturalmente presentato come una sorta di dispositivo pratico e simbolico di auto-distruzione demografica.
È tutto falso, tutto fattualmente falso. Non esiste nessuna correlazione né tra numero di aborti e numero di figli (in Germania e Italia si fanno sia meno figli sia meno aborti che in Francia e Svezia), né tra “difesa della famiglia eterosessuale” e natalità. Basta dare una rapida occhiata alle statistiche Eurostat per capire che non esiste alcuna correlazione tra bigottismo politico-religioso e fecondità femminile.
Allo stesso modo non esiste una correlazione tra reddito familiare e numero di figli per famiglia che prescinda da altre variabili (istruzione, aspettative di carriera, presenza o assenza di servizi per l’infanzia), per cui la strada di bonus fiscali procreativi sarebbe al più un premio, ma non un incentivo, a differenza di una serie di servizi e diritti pro family universali (asili nido, tempo pieno a scuola, congedi parentali, smart working) molto meno vendibili e redditizi dei soldi cash «messi nelle tasche degli italiani», come usano dire con l’acquolina in bocca i professionisti dell’accattonaggio politico.
Anche l’altro uovo di Colombo del miracolismo riproduttivo, cioè il quoziente familiare, che effetto sistemico avrebbe, funzionando come un incentivo fiscale al non lavoro femminile, quando le donne italiane sono, già oggi, quelle che lavorano di meno nell’Ue.
L’Eia eia alalà natalista è insomma questo mix di pregiudizi nazisti patriotticamente rivisitati e del permanente gioco delle tre carte con i numeri della demografia italiana ed europea. Ma la denuncia del complotto delle culle vuote se potrà dare (ancora per quanto?) qualche voto ai patrioti di Meloni, non darà certo più figli alla Patria.