Il giorno degli appuntamenti alla Camera tra la premier Giorgia Meloni e le opposizioni sulle riforme istituzionali è arrivato. Ma prima ancora di sedersi al tavolo, la presidente del Consiglio ha lanciato un avvertimento alle minoranze. «Vorrei una riforma il più possibile condivisa», ha detto dalla tappa elettorale di Ancona, «ma il mandato per farla l’ho ricevuto dal popolo e io tengo fede agli impegni». Il messaggio è diretto al Movimento Cinque Stelle, al Pd e a quel che fu il Terzo Polo «Non accetto atteggiamenti aventiniani o dilatori».
In realtà, come spiega La Stampa, un disegno di legge è già pronto. Prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio e il mantenimento dei poteri attuali del presidente della Repubblica. Naturalmente è stata prevista anche una clausola di salvaguardia: la riforma entrerebbe in vigore dal 2029, per non intaccare le prerogative del Capo dello Stato. È in pratica quel premierato che le opposizioni hanno già bocciato nel primo round di confronti con il governo, proponendo invece le loro alternative: dal cancellierato dei Dem al sindaco d’Italia di ispirazione renziana.
Il reggente di Forza Italia, Antonio Tajani, pone però una questione: «Le riforme le vogliamo fare con tutti, ma se poi le opposizioni si dividono, come facciamo?». L’idea sarebbe quella di sfruttare le difficoltà delle opposizioni nel fare fronte comune e da lì provare intavolare, magari, un dialogo con Azione e Italia viva.
Mentre la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha già telefonato a tutti gli altri leader di minoranza per tentare un coordinamento, si sa che Matteo Renzi, leader di Italia viva, oggi non sarà al tavolo con la Meloni.
«Io dico alla Meloni: vai avanti, noi sul premierato ci stiamo anche se non ci stanno gli altri e saremo corretti con voi a differenza di quanto fece la destra con le nostre riforme», dice Renzi in un’intervista alla Stampa. «Io sono coerente con la mia storia», puntualizza Renzi, convinto che un premier eletto «non delegittima assolutamente il presidente della Repubblica». La proposta di Italia viva è semplice: «Sindaco d’Italia e superamento del bicameralismo». Di fronte alla crisi della democrazia, l’elezione del premier è positiva per l’ex premier: «Se non stabiliamo un rapporto diretto tra cittadino e politico, continuiamo ad allargare il gap di rappresentanza. Pensi a Conte: prima di essere nominato premier, non aveva mai fatto neanche il consigliere di facoltà. Però il sistema gli ha permesso di guidare il Paese in uno dei momenti più importanti della storia repubblicana. Io che pure ho fatto primarie su primarie, sono stato eletto presidente della provincia e poi sindaco, avevo avuto il voto di milioni di persone e sono entrato a Palazzo Chigi da non parlamentare. Bisogna far sì che il capo del governo sia scelto dai cittadini. Torniamo alla lezione di Roberto Ruffilli e del cittadino arbitro. Spero che la sinistra non lasci alla destra quella eredità culturale».
E non ci sarebbero pericoli per i poteri del Quirinale davanti a un premier eletto con poteri di nomina e revoca dei ministri: «La verità è che oggi i poteri del Quirinale sulla carta sono infiniti. Se lei studia i cavilli, scopre che viviamo già in una situazione di semipresidenzialismo potenziale. La controfirma è un obbligo costituzionale praticamente su tutto. Ricordo con affetto Giorgio Napolitano che mi diceva come l’unico atto che il premier non dovesse controfirmare fossero le dimissioni del presidente della Repubblica. Mentre il Quirinale controfirma anche le dimissioni del capo del governo. Nominare e revocare i ministri è il minimo sindacale di qualsiasi riforma che dia più poteri all’inquilino di Palazzo Chigi».
Poi Renzi annuncia: «La dico in modo chiaro: non faremo alla destra ciò che la destra ha fatto a me. Allora, pur di mandarmi a casa fecero saltare riforme che servivano al Paese. Dico a Giorgia Meloni: se sei seria e fai riforme serie, sulle riforme costituzionali noi ci siamo, anche se non ci stanno gli altri. Essere riformisti non è uno slogan, è una vocazione».
Per la premier tutto dipenderà dall’atteggiamento che assumeranno le opposizioni. Il traguardo, ribadirà oggi Meloni ai partiti, «deve essere la stabilità dei governi». Niente bicamerale, però, e nessuna commissione Costituente: sarà adottata la procedura dell’articolo 138 della Carta, cioè la revisione costituzionale. Meloni, in accordo con Casellati, vuole evitare quelle formule che già in passato si sono spesso trasformate in una palude. Si andrà in Aula e poi, se necessario, si affronterà il referendum.
Ma se la parola d’ordine è «stabilità», allora si devono lasciare aperte almeno le porte che conducono a un rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio, con la revoca dei ministri e l’introduzione della sfiducia costruttiva. È la strada che comporterebbe meno complicazioni, e sarebbe più digeribile dalle opposizioni e dai cittadini. È anche vero, però, che assomiglia tantissimo alla controproposta del Pd, e che non dispiace nemmeno ai Cinque stelle: rimodellare i poteri del premier sul modello del cancellierato tedesco. La stessa Casellati, durante le consultazioni con i partiti avvenute nei primi mesi dell’anno, aveva promesso che «il governo farà tutti gli sforzi per arrivare a una soluzione condivisa». Così da evitare un altro referendum suicida come fu quello del governo Renzi.