L’ultimo turno della Ligue 1, il massimo campionato francese, è destinato a fare storia nel suo senso più negativo. Verrà ricordato come il momento in cui il calcio francese si è scontrato contro il muro dell’omofobia dei suoi stessi giocatori: ben cinque calciatori professionisti, appartenenti a tre club diversi, si sono rifiutati di aderire alla campagna promossa dalla lega contro le discriminazioni verso la comunità LGBTQ+.
Ha iniziato, sabato 13 maggio, il difensore del Guingamp Donatien Gomis, che ha disertato la trasferta a Sochaux in Ligue 2, la seconda divisione transalpina. Il giorno seguente, è arrivata quella che è destinata a essere ricordata come una partita simbolo: Toulouse-Nantes in Ligue 1, con ben tre assenti nella squadra di casa (Zakaria Aboukhlal, Moussa Diarra e Saïd Hamulic) e uno in quella ospite (Mostafa Mohamed).
Non si è trattato di un episodio eccezionale, perché già un anno fa aveva fatto scalpore il caso di Idrissa Gueye del Psg, che aveva deciso di non giocare per non vestire simboli a sostegno della comunità LGBTQ+.
Il calcio francese è quello che ci sta mettendo la faccia più di tutti: ormai da qualche anno le leghe professionistiche portano in campo a maggio dei messaggi contro l’omofobia. Negli scorsi giorni, oltre al logo arcobaleno, i giocatori hanno mostrato un cartello con sopra scritto «Omosessuali o eterosessuali, portiamo tutti la stessa maglia». Ma per adesso il risultato più evidente dell’iniziativa è stato quello di mettere in luce le resistenze ancora forti che l’ambiente del calcio ha verso questa tematica.
Diserzioni in Ligue 1
«Ho il massimo rispetto per ogni individuo, a prescindere dalle preferenze personali, dal genere, dalla religione, dalle origini. Ma questo comprende anche il rispetto per le mie credenze personali». Ha scritto così sui propri canali social Zakaria Aboukhlal, centrocampista di 23 anni, nazionale del Marocco ma nato e cresciuto in Olanda. Quasi identico il messaggio pubblicato sempre su Twitter dall’attaccante egiziano Mostafa Mohamed.
La retorica è piuttosto nota, ed è qualcosa che si è sentito anche intorno alla questione dei diritti LGBTQ+ in Qatar per gli scorsi Mondiali. Resta da capire come si possa rispettare ogni individuo ma trovarsi a disagio nel prendere parte a una campagna che chiede il rispetto di individui omosessuali. Perché il problema sta proprio qui, come ha spiegato bene il giornalista di RMC Sport Daniel Riolo: «Non si tratta di sostenere l’omosessualità, ma di essere contro una discriminazione». Sui diritti umani non esistono vie di mezzo o posizioni neutrali, dovrebbe essere chiaro a chiunque.
È proprio per questo che il caso sta facendo discutere in Francia, anche fuori dal rettangolo verde. Le diserzioni di quest’anno hanno ovviamente causato le critiche di Yoann Lemaire, un simbolo della lotta LGBTQ+ nel calcio, dopo che nel 2004, quando aveva solo 22 anni, divenne il primo calciatore francese (anche se non professionista) a rendere pubblica la propria omosessualità. Anche l’Unfp, il sindacato dei calciatori francese, ha ribadito il suo impegno nella lotta all’omofobia nel calcio, sottolineando che comunque solo un’esigua minoranza di giocatori si è rifiutata di giocare.
Il problema è che, se tanti hanno preso tacitamente parte all’iniziativa calata dall’alto dalla Ligue 1, scarseggiano i calciatori transalpini che prendono pubblicamente posizione contro l’omofobia (tra quei pochi, c’è Antoine Griezmann). Le voci fuori dal coro, quindi, fanno molto più rumore. E non riguardano solo giocatori di fede musulmana, dimostrando che la questione va al di là della religione.
Eric Roy, allenatore del Brest, si è lamentato che le diserzioni dei giocatori del Toulouse possano compromettere la lotta per la salvezza della sua squadra, favorendo il Nantes: «Mi va bene che la lega si impegni in questioni sociali, ma io penso che si dovrebbe occupare di calcio».
Una battaglia difficile
Pensare solo al calcio. Un mantra che il football francese ha ripetuto spesso nelle settimane attorno ai Mondiali in Qatar, investitore strategico non solo a livello sportivo ma anche infrastrutturale. Mentre il resto del mondo occidentale parlava della possibilità di portare aI Mondiale messaggi di rispetto per la comunità LGBTQ+, il capitano dei Bleus Hugo Lloris si tirava fuori dalla campagna One Love, appoggiando l’ormai ex-presidente della Federcalcio Noël Le Graët (peraltro, noto per le sue posizioni omofobe).
Simili discorsi erano stati fatti anche da Arsène Wenger, Youri Djorkaeff e addirittura dal Presidente della Repubblica Emmanuel Macron.
Quanto possono valere, allora, le parole di questi giorni della Ministra dello Sport Amélie Oudéa-Castera, che chiede sanzioni sportive verso i giocatori che si sono schierati contro la campagna della Ligue 1? La lotta all’omofobia nel calcio francese pare minata alle fondamenta, tanto che anche un allenatore veterano come Bruno Genesio, tecnico del Rennes, ha deciso di non portare alcun simbolo arcobaleno domenica scorsa. «Sono contro ogni forma di discriminazione – ha premesso, pure lui –. Ma penso che siamo qui per giocare a calcio. Credo che iniziative del genere non siano necessarie».
La Francia si scopre più omofoba di quello che probabilmente pensava, e il calcio ancora una volta porta in superficie questioni che però si sviluppano fuori da esso. Negli ultimi anni si è registrato un costante aumento delle denunce di aggressioni omofobe e transfobiche nel Paese. Nel 2022, l’incremento nella sola regione dell’Île-de-France è stato di un inquietante cinquantacinque per cento.
E mentre l’impegno di Macron s’infrange davanti ai suoi silenzi sui Mondiali in Qatar, Marine Le Pen porta avanti con discrezione la retorica della destra radicale ostile alla comunità LGBTQ+, e intanto incolpa i musulmani per la crescente omofobia in Francia.