Per una storia breve delle tende da campeggio e della loro accezione politica, occorre cominciare dal 1995, quando – nell’àmbito di quella truffa per multimilionari che è l’arte concettuale – a Tracey Emin venne in mente di produrre una tenda che all’interno avesse appiccicati i nomi dei tizi che si era scopata e dei feti che aveva abortito, e intitolarla “Everyone I Have Ever Slept With, 1963-1995”.
Molti anni dopo sarebbe arrivato Mattia Santori – quello delle sardine, quello col cerchietto, quello che è andato a mangiare la mortadella con Stanley Tucci, quello per cui a Bologna serve non una raccolta della spazzatura che funzioni ma lo stadio del frisbee: lui – a piantare la tenda nella sede del Pd che lui e altri giovani virgulti intendevano occupare o espugnare o sa il cielo cosa.
Adesso, la voga di stagione è che in tenda ci si dorme per protestare contro il fatto che è meglio essere ricchi e felici che poveri e infelici. Il che è certamente vero – nessuno ha mai detto sciocchezze avendo come faro ideologico Max Catalano – ma ha dei limiti. Ai limiti però arriviamo dopo: prima le buone notizie.
È una buona notizia che i giovani virgulti si occupino di economia invece che di pronomi percepiti (anche se loro, non essendo abbastanza adulti da comprendere che le risorse sono una quantità finita, direbbero che no, che i pronomi sono importanti quanto la possibilità di pagarsi una casa: non lo sono, date retta a zia). È una buona notizia se la smettiamo di americanizzarci e di perderci in puttanate quali lo stadio del frisbee e la schwa e recuperiamo un po’ di marxismo, che in modica quantità male non fa.
Purtroppo, siamo nel secolo del Grande Indifferenziato, e quindi i giornali intervistano la studentessa che fa la pendolare dalla cintura milanese con l’enfasi con cui parlerebbero con un profugo appena sbarcato dopo aver attraversato oceani, e quasi nessuno resiste alla tentazione di pensare che allora è tutto burletta, allora non è un problema serio.
Poi arrivano quelli che invece tengono il punto e dicono che irridere la pendolare da venti chilometri al giorno significa non aver capito che bisogna fare come la Catalogna che espropria i ricchi per dare gli alloggi alle persone vulnerabili. Sono ragionevolmente certa che, non essendo gli esponenti del Grande Indifferenziato sveglissimi, mi direbbero che d’altra parte pure io ho invocato un po’ di marxismo.
Ma la studentessa brianzola che può arrivare a Milano in un quarto del tempo necessario a spostarsi da una parte all’altra di Londra non è marxianamente bisognosa né catalognamente vulnerabile: è pigra. Non ho niente contro la pigrizia, sono pigrissima, ma abbastanza adulta da essere consapevole dei miei limiti e del fatto che alla società non spetti farsene carico.
Purtroppo siamo anche nel secolo del presentismo, e quindi ogni problema è nuovo, inedito, degno di prime pagine di giornali. Persino gli affitti costosi nelle città universitarie, quelli che ai tempi di mia madre si facevano marchette per pagare e ai tempi miei no perché siamo stati la prima generazione che non s’imbarazzava a farsi mantenere dai genitori.
Il concetto di classe sociale lo appresi a Roma negli anni Novanta, allorché feci amicizia (chiamiamola così) con tre ragazzi che vivevano nello stesso appartamento. Ma solo uno dei tre ne era proprietario: i genitori gliel’avevano comprato acciocché si facesse pagare dai coinquilini per condividerlo, e tutti e tre potessero metterci dieci anni a laurearsi in Lettere, ma uno solo dei tre potesse farlo senza chiedere soldi a papà perché si manteneva coi soldi che gli davano i coinquilini.
Ho letto una scrittrice spiegare che Nicola Porro non può sbeffeggiare i giovani che non vogliono fare sacrifici perché su Wikipedia c’è scritto che viene da una famiglia latifondista. Al di là della sopravvalutazione dell’attendibilità di Wikipedia, stiamo quindi dicendo che delle questioni di classe e di economia e di stato sociale e di accesso allo studio possono parlare solo coloro che discendono dai valvassori?
Annalisa Cuzzocrea ha scritto su Twitter un’invettiva contro coloro, indubitabilmente di destra, che irridono i giovani virgulti e vogliono che facciano i camerieri per mantenersi agli studi. Ho sempre trovato molto strano che in Italia si consideri inaccettabile che si lavori mentre si studi. Forse ha ragione Annalisa: è in effetti una cosa reputata normale negli Stati Uniti, un paese in cui anche la sinistra è di destra. Però, ecco, io sono felice di aver lavorato mentre altri incassavano affitti: mi pare mi abbia preparato meglio al mondo, nel quale sto da abbastanza anni da concludere che di gente che non abbia mai lavorato e sappia badare a sé stessa non ne ho mai incontrata (non è che servisse “Succession” per spiegarci che i ricchi di seconda generazione son tutti scemi).
Probabilmente gli studenti poco più che ventenni, cui i miei inetti coetanei hanno tenuto la mano mentre essi ci spiegavano che l’Isef è troppo competitivo e l’alberghiero di Massa Lubrense ha eccessive pretese rispetto alla performatività, direbbero che è una vessazione pretendere che lavorino mentre danno tre esami l’anno. D’altra parte la Tracey Emin poco più che trentenne tolse il saluto a Saatchi, il gallerista che comprò la tenda, perché era amico della Thatcher, che secondo la ragazza era una criminale.
Emin ha avuto trent’anni nel fortunato secolo in cui gli adulti non cercavano la luce riflessa delle scemenze giovanili. I poveri giovani d’oggi si ritrovano con Myrta Merlino che mette una tenda in studio, perché – dopo essersi nello stesso studio televisivo inginocchiata per Black Lives Matter, solidale coi neri di Minneapolis – sente sue anche le istanze di chi potrebbe esser suo nipote. Dopo il presidente operaio, la conduttrice studentessa fuorisede: restituite i Guzzanti al palinsesto, ci servono.
La gioventù ha il diritto e il dovere d’essere scema. Noialtri – che abbiamo una vita sessuale lunga quanto quella di Tracey Emin, e avremmo il dovere di dare risposte adulte – siamo così terrorizzati d’essere catalogati come «boomer» da dar ragione su tutto a questi occupanti di tende che non sanno distinguere un problema che sia sensato porre da uno con cui tocchi imparare a convivere.
Diciamo loro che certo, presto esisteranno città appetibili che non siano carissime perché non è affatto fisiologico che i posti dove tutti vogliono andare siano più costosi, e scienze politiche è una facoltà molto difficile, e la marmotta fa il cioccolato.