Luna calanteIl sogno neo-ottomano della Turchia e il distacco dall’Occidente

Il mito del passato imperiale è una fonte di voti per i politici che promettono di restaurarlo. Un saggio del Mulino chiarisce gli scenari sul futuro del Paese anatolico, al bivio tra democrazia e autoritarismo, a cent’anni dalla fondazione della Repubblica

Un ritratto di Ataturk vicino a una bandiera turca
AP Photo/Khalil Hamra

Come molti altri Stati con un passato imperiale, la Turchia conserva intatto il mito della propria grandeur e, a prescindere dalle ragioni che ciascuno ritiene valide per spiegare la fine della gloria passata, la popolazione si mostra incline a concedere la propria fiducia a quei politici che promettono di rendere nuovamente grande il paese. Del resto, è trascorso appena un secolo dalla proclamazione della Repubblica.

Atatürk ha promesso un percorso di europeizzazione che avrebbe modernizzato il paese sul piano normativo, economico, sociale e culturale, e avrebbe portato la Turchia, umiliata non solo dal contenuto ma anche dalle modalità negoziali del Trattato di Sèvres, a sedere da pari al tavolo delle potenze mondiali. Al contempo, il padre della patria, una volta conclusa la guerra di liberazione, ha fortemente sostenuto la politica del «pace in patria, pace nel mondo» (Evde Barış, Dünyada Barı).

Ottant’anni dopo, Erdoğan si presenta agli elettori con una promessa simile e, come Atatürk, plasma nuovamente il paese. In politica estera, questa volta, l’obiettivo è trasformare la Turchia in una potenza regionale, capace di partecipare alle scelte globali in maniera attiva e non più solo grazie al ruolo geostrategico che l’antagonismo con l’URSS del blocco occidentale le ha assicurato durante gli anni della Guerra fredda.

È così che, sotto l’influenza di Ahmet Davutoğlu, ministro degli Esteri nel 2009 e poi primo ministro nel 2014, negli anni dell’espansione economica della tigre anatolica si sviluppa e si dà attuazione alla teoria degli alternative paradigms e alla politica «zero problemi con i vicini». La Turchia rimane fedele all’alleanza con l’Occidente ma non subalterna, consolida i rapporti con i vicini già avviati negli anni Novanta e rilancia il suo ruolo a livello globale come affidabile potenza regionale e come pivot del mondo musulmano.

È in quest’ottica che, con una scelta anomala per un paese che attribuisce al secolarismo il valore di principio costituzionalmente fondante, nel 2004 la Turchia assume la presidenza dell’Organizzazione della conferenza islamica.

Mentre le relazioni con Israele si complicano, la Turchia costruisce nuove alleanze con il regime siriano e con l’Iran e si impegna a consolidare le relazioni con tutti i paesi confinanti, sia a livello terrestre che a livello marittimo, utilizzando l’Islam come collante strategico in ogni occasione possibile.

La profondità strategica ricercata da Davutoğlu si rivela tuttavia fallimentare e la Turchia, all’alba della seconda decade di governo dell’AKP, si ritrova ad avere «tanti problemi, non solo con i vicini». L’allontanamento dagli incarichi di governo di Davutoğlu sembra un chiaro segnale di questo fallimento.

È così che trova spazio un nuovo progetto di politica estera, elaborato dall’ammiraglio Cem Gürdeniz. Il progetto Mavi Vatan (patria blu) prevede che il ruolo geostrategico della Turchia passi per il controllo dei mari che la circondano. Da qui derivano il forte impegno turco in Libia e Siria, l’interesse per lo sfruttamento del gas nel Mar Nero e la ferma volontà di non cedere terreno dinanzi alle pretese greche per la definizione di un mare territoriale che di fatto limita la sovranità turca a poche miglia marine dalla sua costa.

Sullo sfondo di entrambi i progetti si può cogliere quel desiderio di neo-ottomanesimo inteso non tanto come volontà coloniale, quanto come volontà di ricostruire per la Turchia quella centralità e rilevanza internazionale che ha certamente avuto al tempo dei sultani. Del resto, è proprio la vita nell’harem del più famoso fra i sultani, noto in Europa come Solimano il Magnifico, che viene utilizzata per ricordare la grandeur imperiale in una delle serie turche esportata in tutto il mondo (Il secolo magnifico), peraltro aprendo la strada alla costruzione di un nuovo settore economico per il paese al punto che si comincia a parlare di una Bollywood turca.

A livello simbolico, infine, anche la scelta del 2016 di non procedere al ritorno all’ora solare, allineando la Turchia – da un punto di vista della «gestione» del tempo – con i paesi del Medioriente e con l’ora di Mosca, e non più con i paesi dell’Europa orientale, sembra significativa nel segnare il progressivo distacco dall’Occidente.

Da “La Turchia di Erdoğan”, di Valentina Rita Scotti, Il Mulino, 168 pagine, 14 euro.