In vista delle elezioni presidenziali di questo fine settimana, tre giovani attivisti ambientali hanno intentato la prima causa di sempre per immobilismo climatico contro la presidenza turca e il ministero dell’Ambiente, dell’Urbanizzazione e del Cambiamento climatico. L’azione legale è stata innescata da Atlas Sarrafoğlu (16 anni), Seren Anaçoğlu (20) ed Ela Naz Birdal (17).
È una notizia perché non era mai successo prima d’ora, ma soprattutto perché la Turchia è un Paese in cui la società civile affronta repressioni e intimidazioni su base quotidiana. Basti pensare alle minacce (anche con armi da fuoco) ai danni di Birhan Erkutlu e Tuğba Günal, che per più di dieci anni hanno portato avanti una battaglia legale contro la costruzione di nuove centrali elettriche nella valle di Alakir.
Visualizza questo post su Instagram
L’accusa dei tre attivisti contro Recep Tayyip Erdoğan e Murat Kurum, il ministro dell’Ambiente, è di aver sottovalutato la questione dei Nationally determined contributions, ossia i contributi non vincolanti che un Paese mette in agenda per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica.
A seguirli legalmente è l’avvocato Deniz Bayram, che ha parlato di «incertezza dei metodi scientifici utilizzati dal governo» nel presentare i suoi piani ambientali e puntato il dito contro la mancanza di una data per il graduale abbandono dei combustibili fossili come il carbone. Su Change.org, la petizione in loro sostegno ha raggiunto quasi seimila firme.
Nel novembre 2022, in occasione della Cop27, la Turchia ha annunciato che ridurrà le proprie emissioni di gas serra del quarantuno per cento rispetto ai livelli “business-as-usual” entro il 2030, quasi raddoppiando il precedente obiettivo del ventuno per cento. Il governo, che punta a raggiungere le neutralità carbonica entro il 2053, ha poi spiegato che il Paese toccherà il picco di emissioni nel 2038, ammettendo implicitamente che l’impatto climatico è destinato a crescere fino a quella (lontanissima) data.
L’accusa dei tre attivisti ricalca quanto sostenuto da un gruppo di Ong ambientaliste, tra cui Europe beyond coal. L’ultimo impegno green della Turchia non è un vero cambio di passo rispetto all’attuale trend, anzi, nella realtà dei fatti potrebbe comunque portare a un aumento dell’impronta carbonica nazionale nell’attuale decennio: «Considerando che l’incremento medio annuo delle emissioni della Turchia negli ultimi trent’anni è del tre per cento, l’obiettivo (annunciato alla Cop27, ndr) significa semplicemente che non ci sarà una deviazione dal percorso storico delle emissioni», spiega Bengisu Ozenc, direttore della Sustainable economics and finance association.
«In quanto giovane attivista per il clima, voglio che la riduzione delle emissioni della Turchia sia in linea con l’accordo di Parigi, che abbiamo firmato troppo tardi», sottolinea Atlas Sarrafoğlu, uno degli attivisti che ha intentato la causa. Quello che dice è vero, perché Ankara ha ratificato l’accordo sugli 1,5 gradi – raggiunto alla Cop del 2015 – solamente nel 2021, lo stesso anno in cui ha presentato il suo primo Nationally determined contribution.
Al potere del 2003, Erdogan ha costantemente preso sottogamba la sfida ambientale. A parole dice che «gli effetti distruttivi della crisi climatica richiedono sforzi collettivi», nei fatti la Turchia ha un mix energetico alimentato all’ottanta per cento da fonti non rinnovabili. L’ambiente non è mai stato un tema per lui rilevante, nonostante il timido cambio di passo degli ultimi anni. Lo confermano la nuova centrale a carbone a Hunutlu e la dipendenza del Paese dai combustibili fossili di Mosca. Ankara, nei primi cento giorni di guerra, è stato il quinto maggior importatore di gas, petrolio e carbone dalla Russia.
Tra progetti mastodontici e dannosi per l’ecosistema (su tutti il canale di Istanbul, che collegherà il mar Nero al mar di Marmara), snellimento delle procedure per la valutazione dell’impatto ambientale e tagli al dipartimento che si occupa della gestione forestale, Erdogan ha relegato in un angolo la quesitone ecologica. La Turchia, però, è uno dei Paesi più esposti agli effetti dei cambiamenti climatici. E il conto dell’inazione si sta già rivelando salatissimo.
Nello Stato, secondo il Wwf, scoppiano in media duemila incendi boschivi all’anno che distruggono settemila ettari terreno. Il novanta per cento è causato dall’uomo, ma l’aridità dei terreni e dei boschi (una conseguenza delle temperature elevate e dell’assenza di piogge) favoriscono la rapida propagazione delle fiamme. In più, come scrive Futura D’Aprile su Domani, nel 2020 il sei per cento delle foreste turche ha perso la classificazione di “area boschiva” ed è stato destinato a usi energetici o turistici.
Con Kemal Kiliçdaroglu, lo sfidante di Erdogan alle elezioni, difficilmente si assisterà a un peggioramento delle politiche ecologiche turche, ma il miglioramento potrebbe rivelarsi poco significativo. In un articolo sull’Economist, il capo dell’opposizione ha genericamente scritto che il cambiamento climatico è «in cima alla lista delle sfide», e in campagna elettorale ha più volte parlato di migrazioni in chiave ambientale, citando i periodi di secca che stanno affliggendo il Tigri e l’Eufrate.
Tuttavia, il leader del Partito popolare repubblicano finora non si è particolarmente sbilanciato sulla questione ambientale, anche a causa della diversità dei partiti della coalizione che sfida Erdogan. Un fatto è certo: l’intenzione non è quella di costruire nuove centrali a carbone e di puntare tutto sui combustibili fossili. Infatti, tra le sei forze politiche dell’alleanza c’è Yeşil Sol (sinistra verde) e tra gli obiettivi di Kiliçdaroglu c’è la riapertura dei dialoghi per l’ingresso nell’Unione europea, che impone standard ambientali di un certo livello. Ma la redenzione green della Turchia necessita di sforzi molto più ambiziosi.