Promesse non mantenuteYouTube continua a guadagnare con i video dei negazionisti climatici

Decine di brand, anche molto noti, finanziano involontariamente la piattaforma (e quindi Google) attraverso i loro annunci pubblicitari su contenuti che diffondono fake news inerenti alla crisi ecologica

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Era l’ottobre del 2021 quando Google, poche settimane prima della Cop26 di Glasgow, diede una svolta alle sue politiche per arginare la proliferazione del negazionismo climatico sul web. I siti, i giornali e gli youtuber che diffondono contenuti contrari «al consenso scientifico sull’esistenza e le cause del climate change» non avrebbero più potuto guadagnare attraverso i servizi pubblicitari (e non solo) gestiti dal colosso di Mountain View: è questo il sunto della normativa che Google, sulla carta, iniziò ad applicare dall’ultimo biennio del 2021. Si tratta di un regolamento rigoroso, simile a quello valido per i video sulle armi da fuoco. 

Ma secondo il Center for countering digital hate (Ccdh), una ong che si occupa di monitorare la diffusione dell’odio e della disinformazione online, l’azienda californiana non sta rispettando le promesse fatte quasi due anni fa. La non profit britannica punta il dito soprattutto su YouTube, la cui pubblicità è gestita da Google Ads. La piattaforma fondata nel 2005, si legge sul nuovo report del Ccdh, «trae profitto dagli annunci commerciali su video di disinformazione climatica con decine di milioni di visualizzazioni». 

Gli autori della ricerca hanno identificato circa cento filmati, visti in totale 18,8 milioni di volte, che violavano le norme pubblicitarie di Google sul negazionismo green: «Ma questi numeri potrebbero essere solo la punta dell’iceberg», spiega Callum Hood, autore principale della ricerca, al New York Times. Valutare l’intera portata della disinformazione su YouTube è difficile, se non impossibile, dato che le attività di ricerca si basano anche sul tempo trascorso a guardare video alla ricerca di irregolarità o zone grigie. 

Le “ads”, secondo le normative di Google spiegate in cima all’articolo, non sono consentite sui video contrari alle opinioni della comunità scientifica internazionale sull’esistenza del cambiamento climatico e sui fattori che l’hanno innescato (e che continuano ad aggravarlo). Sul report del Ccdh, però, sono indicati diversi contenuti dall’approccio “trumpiano” ai temi ambientali con annunci pubblicitari automatici di diversa natura. Alcuni sono persino di grandi marchi come Costco, Politico, Calvin Klein, Adobe o Grubhub. 

Fonte: Center for countering digital hate / New York Times

Questi video contengono uscite come «ogni singolo modello dell’Ipcc è sbagliato», «non c’è legame tra le emissioni di CO2 e l’aumento della temperatura» o «l’isteria climatica è solamente una strategia di rebranding». Un esempio eclatante è la pubblicità di quindici secondi del film “80 for Brady” di Paramount+ prima di un video intitolato “who is Leonardo DiCaprio”, in cui il cambiamento climatico viene ripetutamente definito un «inganno». Dopo la pubblicazione del report, YouTube ha rimosso l’annuncio. 

Da segnalare anche il banner del quotidiano statunitense Politico in mezzo al video “Humans Do Not Control Atmospheric CO2 Or Climate”, in cui il meteorologo negazionista Chuck Wiese contesta le cause antropiche del riscaldamento globale. Video del genere sono già pericolosi di per sé per le informazioni (false) che veicolano. Oltretutto, la piattaforma – che nel 2021 ha versato assieme a Google 13,2 milioni di dollari a sostegno dell’International fact-checking network (Ifcn) – ne trae guadagno attraverso annunci pubblicitari di grosse aziende.

Fonte: Center for countering digital hate

Altri contenuti negazionisti al centro del report avevano banner pubblicitari o spot commerciali dedicati ad attività per l’ambiente o per il sociale, compresi annunci per l’installazione di pannelli solari e prodotti sponsorizzati dal Rainforest Trust, nota organizzazione che preserva le specie minacciate nelle foreste pluviali tropicali. 

Essendo Google Ads a coordinare le pubblicità dentro i video di YouTube, i brand aderenti non hanno mai il pieno controllo della situazione e, a volte, si trovano catapultati dove non vorrebbero mai essere. E il disagio di comparire prima, dopo o durante un filmato che predica falsità e inesattezze sulla crisi climatica è grande tanto quanto il danno d’immagine. Le aziende, scrive il Center for countering digital hate, «hanno inavvertitamente aiutato YouTube a trarre profitto dalla disinformazione climatica». 

Il problema è identico rispetto a quello sollevato nel 2020 dalla ong internazionale Avaaz che, oltre a parlare di advertising, aveva messo in fila qualche dato sulla disinformazione climatica su YouTube: il sedici per cento dei cento principali video a tema “global warming” conteneva falsità sull’ambiente e il clima. Per quanto riguarda la chiave di ricerca “climate change”, le fake news diminuivano all’otto per cento, mentre crescevano al ventuno per cento per “climate manipulation”. In totale, nel 2020, i video negazionisti sulla crisi climatica erano più di cinquemila, con più ventuno milioni di visualizzazioni complessive. 

E non è tutto, perché in alcuni casi, si legge sul nuovo studio del Center for countering digital hate, YouTube divide le entrate derivanti dagli annunci visualizzati su un video con il canale che lo ha pubblicato, devolvendo il cinquantacinque per cento dei proventi pubblicitari al creatore di contenuti e trattenendo il restante quarantacinque per cento. Un dato che, va specificato, si inserisce in un periodo di forte crescita degli introiti di YouTube tramite le “ads”: nel 2017 le pubblicità sulla piattaforma hanno generato 8,1 miliardi di dollari contro i 28,8 miliardi del 2021. 

Un portavoce di Grubhub, piattaforma americana di food delivery, ha detto al New York Times che la società sta lavorando con YouTube e altri partner per «impedire che gli annunci del brand vengano visualizzati insieme a contenuti che promuovono la disinformazione». 

Fa un parziale mea culpa Michael Aciman, policy communication manager di Google e portavoce di YouTube, secondo cui i video segnalati dal Center for countering digital hate rappresentano una svista involontaria: «Attuiamo rigorosamente le nostre politiche – dice al New York Times – ma l’applicazione non è sempre perfetta e lavoriamo costantemente per rimuovere i contenuti che violano le normative. Ecco perché accogliamo favorevolmente il feedback di chi pensa che ci siamo persi qualcosa».

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