Non ci resta che starnutireIl cambiamento climatico allunga la stagione delle allergie

Esiste una stretta correlazione tra temperatura e durata delle fioriture. In più, l’aumento delle massime e delle minime annuali si traduce in una dilatazione della stagione pollinica. E nelle zone più inquinate è ancora peggio: la CO2 funge da fertilizzante per le piante allergeniche

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Occhi che pizzicano, naso che cola e ancora starnuti inarrestabili insieme a prurito diffuso con, talvolta, crisi asmatiche e fiato corto. Ogni anno sono circa cento milioni le persone che in Europa soffrono di rinite allergica, mentre arrivano a settanta i milioni di asmatici, persone le cui vite sono legate alle allergie stagionali e al loro andamento fluttuante e imprevedibile, soprattutto negli ultimi anni. 

Perché se nell’immaginario comune qualche starnuto nella prima metà dell’anno è lieto sinonimo del ritorno della primavera, per alcuni e alcune è ciò rappresenta l’inizio di una serie di sintomi invalidanti, che influenzano la qualità della vita e che pesano sulle finanze personali e pubbliche. Pensiamo alle manifestazioni asmatiche che sono talvolta collegate anche alla presenza di pollini nell’aria: secondo uno studio condotto nel 2013 in circa undici Paesi europei, tra il 1999 e il 2002 un paziente con asma persistente ha speso in media, per le proprie terapie, millecinquecento euro, senza tener conto delle limitazioni in termini personali e lavorativi. 

«Il costo sociale è molto alto, poiché l’asma ha un impatto su tutte le nostre attività. Non avere fiato significa non riuscire a fare una vita normale: sociale, familiare, lavorativa, diventa difficile frequentare gli amici, praticare sport. Diminuisce quindi la nostra produttività sociale e anche economica. Nel 2019, secondo l’Istat, in Italia sono stati cinquecento i decessi per crisi asmatiche acute. Un dato drammatico se si pensa che è una malattia perfettamente curabile», afferma Francesca Puggioni, specialista in malattie dell’apparato respiratorio, capo-sezione clinico organizzativo dell’Immuno Center di Humanitas e membro del consiglio direttivo della Società italiana di allergologia, asma e immunologia clinica (Siaaic). 

Meno produttività e costi proibitivi, l’accesso alle terapie però non è l’unico problema. A peggiorare la situazione è la trasformazione da pazienti stagionali a cronici a cui contribuisce, che si parli di asma o di allergie, ancora una volta il cambiamento climatico: confondendo le stagioni e allungando le fioriture, gli organismi di alcuni individui restano costantemente sollecitati, come di fronte a una minaccia perenne.

«Un soggetto allergico è una persona che per motivazioni genetiche e ambientali sviluppa degli anticorpi verso i cosiddetti allergeni, ovvero sostanze che sono generalmente innocue, ma verso cui si crea una risposta infiammatoria nell’organismo, come se si trattasse di sostanze da combattere, ad esempio virus e batteri», continua Puggioni.

E se è vero che asma e allergie stagionali sono condizioni trattabili, mitigabili con terapie mirate e individuali, anche queste ultime subiscono gli impatti dell’incertezza climatica. Se fino a qualche anno fa, infatti, le terapie si pianificavano anche sulla base di calendari pollinici fissi, ora il cambiamento climatico mischia le carte in tavola. Ad aggiustare il tiro gli aggiornamenti dei bollettini del polline (pubblicati da enti preposti per ogni Regione), su cui gli esperti e i pazienti possono fare affidamento.

Aumento delle temperature, siccità e inquinamento atmosferico infatti incidono drasticamente sulla stagione vegetativa, che si dilata senza possibilità di retrocessione. A confermare questo trend è un’analisi pubblicata da The Lancet Planetary Health in cui, attraverso una valutazione retrospettiva su diciassette siti in tre continenti, si ricostruisce l’alterazione del carico pollinico nel corso di ventisei anni, fino al 2019. 

Oltre a rilevare, nel settantuno per cento dei siti, un aumento generale del polline nell’aria, ciò che emerge è una stretta correlazione tra temperatura e durata delle fioriture; l’aumento delle massime e delle minime annuali si traduce in una dilatazione della stagione pollinica che in Nord America, secondo uno studio pubblicato dalla rivista statunitense PNAS, nel 2018 è arrivata con un anticipo di venti giorni e un allungamento di otto rispetto al 1990. 

Se lo sguardo al passato ci inquieta, all’orizzonte non sembrano profilarsi miglioramenti significativi. A confermarlo è una ricerca pubblicata nel 2022 da Nature Communications nella quale gli scienziati tentano di prevedere il carico pollinico di quindici delle piante allergeniche più diffuse alla fine del secolo (nel 2081 e nel 2100). 

Ciò che emerge è che le manifestazioni del cambiamento climatico (innalzamento delle temperature, siccità diffusa, ondate di calore e fenomeni climatici estremi) modificheranno l’ambiente vegetale, nel quale le piante infestanti e alcuni tipi di graminacee avranno la meglio. Negli scenari simulati, con un aumento della temperatura di 2-3 gradi e 4-6 gradi, si prevede un incremento del quaranta per cento nella produzione di pollini e la conseguente dilatazione della stagione delle allergie, che sarebbe destinata a durare diciannove giorni in più e a cominciare quaranta giorni prima. 

Un climax scoraggiante da cui nessuno è salvo, soprattutto nelle zone ricche di CO2 e densamente industrializzate – e di conseguenza inquinate – come la Pianura Padana. È qui, infatti, che la CO2, in alta densità, funge letteralmente da fertilizzante per le piante allergeniche che, nello giubilo di chi tenta di evitarne l’esposizione, producono crescenti quantità di polline.

«Nella Pianura Padana il rischio è maggiore perché essendoci una concentrazione di polveri sottili, e di inquinamento, più ampia si sviluppano due meccanismi. In primis, le polveri sottili danneggiano l’epitelio respiratorio nasale e bronchiale, facilitando la penetrazione nelle vie respiratorie sia di batteri che di virus, ma anche di allergeni. In secondo luogo, in circolazione esistono una serie di allergeni di piccolissime dimensioni chiamati apteni e che, proprio per le loro dimensioni, in condizioni ideali non avrebbero un impatto sul sistema immunitario. Legandosi alle polveri sottili, però, gli apteni acquisiscono un peso molecolare più ampio venendo così riconosciuti dall’organismo. In questo modo la potenza allergenica delle sostanze in circolazione nell’aria aumenta», spiega la Professoressa Puggioni.

L’inquinamento e la salute pubblica, anche in questo caso, dimostrano il loro legame indissolubile, ormai tanto chiaro da spingere i cittadini stessi verso nuove vie, anche giuridiche, per far valere il proprio diritto a respirare aria pulita. Intanto, mentre il numero di pazienti allergici continua inevitabilmente a crescere (secondo gli esperti metà della popolazione mondiale lo sarà, entro il 2050), il report 2023 dell’Ipcc indica le allergie alimentari, estremamente sottovalutate ma in costante aumento, non solo come conseguenza diretta del cambiamento climatico ma anche come minaccia alla sicurezza alimentare globale. A questo punto, tra uno starnuto e l’altro, non ci resta che piangere. 

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