Volutamente scrivo queste righe prima dell’emissione della sentenza nei confronti di Alfredo Cospito, attesa per il 26 giugno, quella posta a concludere il processo di appello che lo vede imputato per strage. Ne scrivo ora perché ciò che della vicenda di Cospito merita attenzione non riguarda i delitti di cui egli si è reso responsabile e che, in modo raccapricciante, ha ritenuto di rivendicare, bensì le parole che ha pronunciato contro il regime carcerario del 41 bis. Il “caso” di Cospito non stava in quei delitti, ma in quelle parole. E quelle, non ostante la censura che se ne è fatta, rimangono e rimarranno a prescindere dall’entità della condanna. Rimangono e rimarranno a disonore di una società che si vede rinfacciata da una prigione la propria inciviltà.
Sono parole che più e meglio di quelle di chiunque altro hanno simultaneamente denunciato l’infamia di quel sistema afflittivo e la responsabilità di una classe politica che, nella soggezione alle fazioni reazionarie del potere giudiziario, l’ha introdotto e ne ha mantenuto il vigore contro ogni ragione giuridica e civile.
Per quanto detestabile fosse l’opera di rivendicazione dei delitti che ha commesso, è grazie alla sua iniziativa di protesta se sulle prime pagine dei giornali e in prima serata televisiva è riuscita a intrufolarsi, pur tra le retoriche sicuritarie e le manifestazioni di fedeltà alla tortura di Stato, l’idea che non si combatte il crimine tenendo in isolamento il criminale per ventidue ore al giorno, facendogli vedere il figlio un’ora al mese, concedendogli cronometrati minuti d’aria in spazi che riterremmo insufficienti per un tacchino o un maiale, affidando all’amministrazione carceraria la decisione sui libri e sulle musiche consentite perché c’è caso che un testo garantista gli faccia venire brutte idee e una musica neo melodica potrebbe infiammargli l’anima (non sono storie, è successo davvero).
Per quanto non si possa concedere nulla ai suoi vagheggiamenti eversivi, è ancora in forza delle iniziative di digiuno di quel detenuto – ovviamente oggetto di dileggio quando le interrompeva per disperazione, o perché intravedeva qualche possibilità di riscontro – se si sono manifestate in faccia al Paese, oscene come mai prima, l’istanza forcaiola e l’impostazione aguzzina finalmente libere di rivendicare che è giusto far soffrire quei carcerati siccome essi hanno fatto soffrire gli altri.
Senza Alfredo Cospito sarebbe mancata alle curve del linciaggio e della giustizia inquisitoria l’occasione per strillare che chi contesta il 41 bis sta dalla parte della mafia e dei terroristi, la menzogna adoperata per giustificare il crimine di Stato che piega l’indole criminale con la purificazione dei corpi murati vivi. Una menzogna cui in modo salutare tutti hanno potuto assistere, vedendola magari vincente nel prevalere dei talk show togati e dei democratici editoriali a forma di cappio, ma in realtà completamente indifesa davanti all’evidenza che no, chi vuole l’abolizione di quel sistema non sta dalla parte dei mafiosi e dei terroristi: sta dalla parte dello Stato di diritto.
Ora – è bene intendersi – non si può dire che la militanza carceraria di Alfredo Cospito riscatta il suo passato delittuoso, né appunto le dichiarazioni con cui lo ha rivendicato. Ma si deve dire che una più chiara voce di civiltà sull’ignominia di quell’organizzazione carceraria, sulle leggi che la prevedono e sui provvedimenti che ne fanno attuazione, è venuta da lui, da un criminale.
Per questo abbiamo detto quando esplose il suo caso, e per questo ripetiamo ora, prima della sentenza e a prescindere dalla giustizia che essa disporrà: «Con Cospito, e contro lo Stato del 41 bis».