Volevo solo un caffè È con l’espresso che si batte l’espresso

Servire una tazzina al banco chiede velocità a chi la deve preparare, il filtrato chiede pazienza a chi lo deve consumare, nel mezzo un settore che si arricchisce di nuove proposte e di tantissime informazioni, ma che sulla qualità media del prodotto di punta è ancora in difficoltà

@Gaia Menchicchi

L’avvento di nuove modalità di estrazione e la maggior diffusione delle caffetterie specialty sono chiaro segno che nell’universo della gastronomia il caffè si sta ritagliando uno spazio sempre più ampio e rilevante e lo conferma il fatto che a questo tema sia stato dedicato un intero tavolo di riflessione durante l’hackathon del Festival di Gastronomika 2023.
Qui la giornalista Mariacristina Coppeto ha moderato una discussione ricca e variegata tra professionisti del mondo della caffeina, ma anche della ristorazione e della pasticceria, con l’obiettivo di fotografare lo stato dell’arte del settore.

@Gaia Menchicchi

Come punto di partenza è stato proposto il tema del cambiamento culturale. Stiamo assistendo infatti a un movimento che in pochi anni ci ha portati dall’espresso come unica opzione al bar a una molteplicità di esperienze gustative in cui cambiano materie prime, temperature, strumenti e modalità di estrazione. Tuttavia l’esperienza gustativa spesso è deludente o non è all’altezza dei progressi fatti, e si sta puntando a enfatizzare estrazioni e specialty mentre ai banconi si servono ancora decine di tazzine che bruciano, soprattutto nello stomaco Cosa e perché sta succedendo?
È Antonio Pagano, amministratore di Caffè Carnera, a sottolineare il fatto che ora si parla di caffè come materia prima ricca e variegata e comincia a diffondersi una sempre maggior dimestichezza su tipologie, origini, provenienze e altre specifiche, ma l’ostacolo più evidente è proprio quello del riuscire a diffondere questo “sapere” nel pubblico dei fruitori di massa, quelle migliaia di persone che si recano al bar e semplicemente ordinano un caffè, senza neppure immaginare il mondo di conoscenze e dettagli che possono rendere il contenuto della tazzina tanto diverso (e il più delle volte migliore) rispetto a ciò a cui sono abituate.

@Gaia Menchicchi

Le possibilità di differenziazione si stanno moltiplicando, sempre più caffetterie propongono filtri e estrazioni, ma spingendo troppo velocemente verso il nuovo si può creare una distanza eccessiva con l’espresso, disinteressando il cliente il cui palato non è ancora pronto a un tipo di esperienza e a un salto gustativo troppo diverso. Al tempo stesso, se non ci si muove in questa direzione, espresso e filtrato rischiano di restare due binari paralleli, concepiti come cose diverse e non come bevande che nascono dalla stessa materia prima.
Gianni Tratzi, consulente con anni di esperienza alle spalle e fondatore di Mezzatazza Consulting, assiste numerose realtà che desiderano aprirsi al mondo dei caffè specialty e ci racconta che spesso, quando arriva nei locali, per prima cosa vede da un lato una miscela di qualità non eccelsa per l’espresso e dall’altro costosi monorigine serviti in filtro.
Evidentemente alla base di questo strano paradosso c’è un problema culturale, una visione ben radicata nella maggior parte dei consumatori che concepisce la tazzina come un gesto abituale, un qualcosa da prendere “al volo”, senza troppe aspettative se non – purtroppo – quelle legate alla velocità di preparazione e consumo. Non è neppure concepito come un alimento, ma come un servizio, da offrire in fretta e il cui prezzo è visto come “tariffa”, da mantenere entro valori standard e da paragonare tra i vari esercizi, indipendentemente da cosa si sta bevendo.
Il filtrato invece ha un’aura più concettuale, va bene per la colazione lenta del sabato mattina, non certo per introdurre la dose di caffeina necessaria nei giorni lavorativi, prima di timbrare il cartellino (in orario).

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Lo conferma Gabriella, esperienza diretta al banco di Voce Aimo e Nadia, in una zona di Milano dove la clientela è composta sia da turisti che da lavoratori e quindi anche da una componente abbastanza fissa e abitudinaria: «Il monorigine provi a spingerlo, a proporlo, idem l’estratto a freddo o il filtro, funziona con i turisti stranieri, ma per il resto sembra che la gente abbia paura di provare qualcosa di nuovo, fondamentalmente per l’italiano il caffè è sempre caffè, lo vive come una “cosa di passaggio”, non si sofferma sul provare nuovi sapori».

A questo punto è evidente che per far compiere alle persone un’evoluzione verso un consumo di caffè più consapevole è necessario attuare un processo che sia lento e graduale, che a piccoli passi arriverà anche alle estrazioni, ma che per prima cosa deve lavorare sulla qualità della tazza tradizionale.
A mettere bene a fuoco questo concetto è Valeria Clemente, ex dietista professionista ora dedicata allo studio di storia e cultura dell’alimentazione: «L’espresso è ciò che gli italiani sentono più vicino alla loro identità gastronomica e culturale ed è sul suo stesso campo che bisogna combattere la battaglia per la qualità, lavorando per affinità» e come esempio porta il recente e rumoroso caso del consumo alimentare di grilli: non si può proporre subito una frittura di insetti, si passa prima per la trasformazione in farina (con un richiamo psicologico a qualcosa di familiare) e poi per la preparazione di alimenti che tutto sommato rievocano cose che conosciamo già e che ci vanno bene, familiarizzando così con la novità. Allo stesso modo si deve partire dall’espresso come spesso si trova oggi, bruciato o tostato male, e passare per prima cosa a quello fatto bene, selezionato con cura, tostato con criterio, con note aromatiche familiari e non troppo distante da ciò che mediamente siamo abituati a bere. Dopo aver rassicurato e fidelizzato il palato del cliente, si può passare a proporre il filtro oppure note aromatiche differenti dal solito “cioccolatoso” e così via.

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Marco Cavadini, uno dei soci proprietari del ristorante Momento Clu, nel castello di Clanezzo, è d’accordo con Valeria: ciò che si macina in quantità oggi, e non solo in senso metaforico, è ancora espresso su espresso. È quindi più sensato migliorare l’esperienza all’interno di quelle abitudini che già la gente vive e ama. «Permettere alle persone di capire che esiste un caffè migliore di quello macinato e tostato male deve venire prima del capire la differenza tra monorigine Etiopia o Colombia».

L’esperienza di Marco porta tra l’altro la discussione su un altro aspetto rilevante, ovvero il contesto in cui il caffè viene ordinato. Il ristorante, dove conclude un percorso esperienziale vissuto con più calma e coinvolgimento, è probabilmente il luogo più adatto in cui proporre una bevanda che dia una maggiore soddisfazione gustativa e anche quello dove il cliente è più propenso ad accettare un prezzo allineato alla qualità servita. Nel suo locale vengono proposte diverse scelte di caffè, inserite nel menu dei dolci: «In questo momento un menu dedicato rischia di far percepire solo un’ostentazione, mentre un approccio più easy favorisce la causa. Proponiamo al cliente prodotti e metodi di estrazione differenti descritti con lo stesso linguaggio che legge nella carta dei vini (che varietà è, chi lo fa, da dove viene, cosa c’è dentro, quando è stato tostato, quali sono le caratteristiche gustative). Se il cliente chiede altre informazioni ben venga, ma nel rispetto dei suoi tempi e dei suoi spazi, sennò anziché avvicinarlo lo allontani, lo respingi».

Se il ristorante è il contesto culturalmente più pronto, la pasticceria è sicuramente lo step successivo, è anzi un ponte fondamentale per portare questa mentalità fino al banco del bar di quartiere, e questo non può che confermarlo Andrea Olivieri, socio di Olivieri 1882, insegna storica di Arzignano (Vi) conosciuta per l’alta qualità dei lievitati. In pasticceria solitamente c’è più tempo da dedicare all’esperienza e anche all’ascolto di qualche spiegazione in più sul prodotto nuovo, c’è più apertura, attenzione a cosa si consuma, e anche maggiore predisposizione a un costo più sostenuto. Qui infatti è più intuitivo coglierne il legame con il prodotto di qualità superiore, avendo sotto agli occhi e percependo sotto ai denti la differenza che materie prime nobili determinano sul prodotto finito. «Se già il pasticcere non scende a compromessi per la qualità del lievitato e degli ingredienti, e adatta il prezzo di conseguenza, e il cliente avveduto lo capisce e lo accetta, allo stesso modo il caffè di qualità richiede un prezzo adeguato, le cose vanno di conserva».

@Gaia Menchicchi

Si è toccato così un altro tema rilevante, quello dell’educazione e della trasmissione di tutte quelle conoscenze che riguardano varietà, origine, tostatura e tanto altro. Un mondo che rischia di spaventare e respingere se non è comunicato nei modi e nei tempi giusti. A chi spetta farlo?
Sicuramente agli esercenti, sia quelli che devono ancora capire che come non metterebbero mai a banco una pasta bruciata, allo stesso modo non dovrebbero mai lasciar correre un caffè bruciato, sia quelli entusiasti e iper-preparati che devono però trovare un equilibrio tra il desiderio di comunicare tutto il proprio sapere e il rischio di infastidire un consumatore non interessato o che in quel momento non ha il tempo di ascoltare, perché il rischio è quello di portarlo sulla difensiva, dal “Ma io volevo solo un caffè!” all’ordinare direttamente “Un caffè normale, grazie”.
Il “raccontare” quindi è un tema molto importante e delicato, ma non deve diventare l’unico modo per alzare l’asticella della qualità. Piuttosto dare spiegazioni ex post può essere una via più sicura: servire un espresso buono e ben fatto porta infatti il cliente stesso a volersi informare e a chiedere informazioni, e quando l’input viene da lui ascolta più volentieri la storia e le caratteristiche di quel caffè di cui ha riconosciuto la bontà. Per questo il tavolo ha accolto con entusiasmo il motto “è con l’espresso che batti l’espresso”.

Anche le torrefazioni sono parte in causa in questo processo, e a ogni dimensione corrisponde un ruolo fondamentale: dalle grandi aziende, che dopo aver colto i segnali provenienti dal mondo delle caffetterie stanno investendo in prodotti che cominciano a parlare la lingua degli specialty, favorendone la diffusione a livello globale, alle microroastery, quelle che con le loro scelte coraggiose e con un assiduo lavoro di ricerca e sviluppo rappresentano l’avanguardia del settore e spronano anche gli altri a fare quei passi che diversamente non porterebbero al progresso e all’avanzamento collettivo.
D’altronde avviene lo stesso anche nell’alta cucina, Niko Romito docet.