Breonna Taylor è stata uccisa il 13 marzo 2020. Poco dopo la mezzanotte gli agenti di polizia hanno fatto irruzione nell’appartamento della ventiseienne operatrice di pronto soccorso. Taylor era a letto a quell’ora, e nella concitazione del momento la polizia ha sparato trentadue volte, colpendola sei volte e uccidendola. George Floyd è stato assassinato il 25 maggio 2020. Aveva usato un biglietto da 20 dollari per comprare un pacchetto di sigarette in un minimarket e il commesso, pensando che la banconota fosse falsa, aveva chiamato la polizia. Diciassette minuti dopo l’arrivo della prima auto della polizia, Floyd era bloccato a terra a pancia in giù da tre agenti, privo di sensi. Meno di un’ora dopo è stato dichiarato morto. Questi sono solo due esempi del trattamento riservato dalle forze di polizia agli afroamericani. I due incidenti hanno suscitato indignazione in tutti gli Stati Uniti, portato alla rinascita del movimento Black Lives Matter e catalizzato i dibattiti nazionali su razza e polizia.
[…] Secondo alcune stime, più del 25 per cento della popolazione entra in contatto con un agente di polizia nell’arco di un anno, e le interazioni più frequenti sono quelle dovute ai controlli stradali. Al di là della loro frequenza, queste interazioni sono importantissime. Ognuna di esse rappresenta un’occasione per instillare fiducia nei confronti della polizia ovvero per danneggiarla, per rinsaldare il legame con la comunità ovvero per minarlo. Ma come sono queste interazioni quotidiane? E i membri della comunità bianca e nera sono trattati in modo diverso? […]
Nel 2017 alcuni scienziati dell’Università di Stanford hanno cercato di scoprirlo. Le interazioni tra la polizia e le comunità dipendono ovviamente da una serie di fattori anche molto complessi, ma per cominciare a capire come stiano effettivamente le cose, i ricercatori si sono concentrati sul linguaggio: come si rivolgono gli agenti ai membri delle comunità bianca e nera? In collaborazione con la città di Oakland, in California, i ricercatori hanno esaminato i filmati delle telecamere di migliaia di controlli stradali di routine. […] Di norma queste interazioni seguono lo stesso copione: l’automobilista viene fermato perché corre troppo o ha il libretto di circolazione scaduto; dopo aver scritto qualcosa sul blocchetto, controllato la targa ed essersi accertato che tutto il resto sia a posto, spesso l’agente si avvicina al finestrino del conducente. Se tutto fila liscio, si stabilisce una conversazione. […] Non tutte le conversazioni, però, sono così lineari, e sono molti i motivi per cui l’interazione può prendere una brutta piega. […]
Centinaia di ore di interazioni hanno dimostrato che il linguaggio usato nei confronti dei conducenti neri era meno educato, meno amichevole e meno rispettoso. Quando si rivolgevano agli automobilisti bianchi, per esempio, gli agenti tendevano a utilizzare i titoli di cortesia («signore» o «signora»), a fornire rassicurazioni («Va tutto bene», «Non si preoccupi» o «Nessun problema») o a proporre agentività all’automobilista («Può…….» o «Potrebbe……»). Erano più propensi a pronunciare il cognome dell’automobilista, a parlare di sicurezza e a usare parole positive. Quando si rivolgevano ad automobilisti di colore, di contro, gli agenti tendevano a utilizzare appellativi informali (come «amico», «bello», «campione»), a fare domande o a intimare di tenere le mani sul volante. […] Come ha osservato un ricercatore, «basandoci unicamente sulle parole utilizzate dall’agente, possiamo prevedere la razza della persona con cui stava parlando all’incirca nei due terzi dei casi». […]
Lo studio di Stanford solleva molte domande importanti. È facile dare del razzista agli agenti di polizia o vedere nei risultati dell’analisi una prova del fatto che la polizia prende di mira gli afroamericani. E questo è certamente un modo possibile di interpretare i risultati. Ma la verità è probabilmente più sottile e complessa. È possibile che alcuni agenti siano razzisti. E visti i comportamenti generali adottati da singoli agenti nei casi più eclatanti, è pressoché certo che sia così. Ma a prescindere da ciò, resta il fatto che una percentuale ben più ampia di agenti tratta in modo diverso bianchi e neri, e lo fa in maniera più o meno intenzionale. È probabile che gran parte degli agenti sia mossa da buone intenzioni e cerchi semplicemente di fare del proprio meglio in situazioni difficili. Ma, che se ne rendano conto o meno e che lo vogliano o meno, le parole che usano sono diverse. E questo rende il problema sottostante ancora più difficile da risolvere. Perché un conto è identificare le «mele marce» all’interno delle forze di polizia e licenziare un manipolo di agenti, un altro è modificare gli stereotipi, le associazioni, le abitudini e le risposte radicate di centinaia di migliaia di poliziotti.
La buona notizia, tuttavia, è che il linguaggio può aiutare. Perché anche se la maggioranza degli agenti di polizia è mossa da buone intenzioni e cerca di fare la cosa giusta, il loro linguaggio ci fa capire quali sono le aree in cui è necessario un miglioramento. Aree in cui, pur senza rendersene conto, trattano le persone in maniera diversa. E mettendo a fuoco anche i pregiudizi involontari possiamo augurarci di stimolare un cambiamento nella giusta direzione.