L’Unione europea si trova oggi in un momento di rifondazione. E i suoi padri (ri)fondatori si chiamano Brexit, Covid e Vladimir Putin. La scelta dei britannici di uscire da Unione europea e mercato unico si è rivelata un fatale fallimento, ma ha avuto funzione di vaccino. Nessun sovranista europeo evoca più l’uscita dall’Euro, dall’Unione o da chissà quale altra istituzione comunitaria. Se la Brexit ha scongiurato l’Italexit o il Frexit, la pandemia ne ha allargato le aspettative. Il Covid è stato una sorta di stress test per l’Unione, perché ha fatto emergere in modo brutale e tragico, molti bisogni dei cittadini sui quali l’Ue non ha competenze e dove gli Stati membri sono inefficienti. Ci ricordiamo, all’inizio della pandemia, la rabbia degli italiani contro l’Europa, che non era in grado di fornire mascherine e respiratori. Così le opinioni pubbliche europee hanno dato corpo ad un’accelerazione, per lo meno teorica, alla rifondazione europea.
Il senso è che se ti lamenti perché pensi che un certo servizio debba essere garantito dall’Unione europea, gli stai implicitamente attribuendo un ruolo per cui non era stata pensata. Da un’Europa nata per costruire le strategie di medio e lungo termine, siamo passati ad una che è chiamata anche ad occuparsi di alcuni bisogni concreti e quotidiani dei cittadini. La pretesa di un’Unione più efficiente, più decisionista e politica da parte dei cittadini, anche se si manifesta attraverso rabbia e critiche, lascia intendere che i cittadini siano pronti ad allargare le prerogative esclusive dell’Ue a tutti gli ambiti in cui gli Stati Nazione sono di fatto impotenti: cambiamento climatico, epidemie, pandemie, immigrazione, criminalità, terrorismo, ricerca e innovazione.
Un cambio di approccio tradotto anche nel modo in cui l’Unione comunica il proprio ruolo. In tal senso, colpisce il video dell’arrivo di Ursula Von der Leyen in Emilia Romagna post alluvione, osannata come se fosse una rock star, o magari il presidente degli Stati Uniti. Infine, con l’invasione russa in Ucraina, Putin ha scritto i titoli di coda col gruppo di Visegrad, composto da Ungheria, Polonia, Cechia e Slovacchia, rimuovendo uno dei principali ostacoli all’integrazione europea nella sua forma più ampia.
Quindi, ad oggi, in Europa sta andando tutto bene? No. La rifondazione si sta completando? Non esattamente.
L’Unione europea non è ancora in grado di colmare le lacune degli Stati rispetto a sfide transnazionali, e quindi di soddisfare le aspirazioni dei cittadini. Allargare le competenze dell’Unione è fondamentale, ma non potrà essere sufficiente, perché il mondo va molto più veloce di quanto non riesca a correre l’Europa.
In media servono cinque anni per adottare una direttiva, ammesso e non concesso che riesca a vedere la luce, visto che tante sono bloccate al Consiglio da anni. Poi questa deve essere ratificata dai ventisette Paesi. Quindi il lasso di tempo fra quando un testo è votato a quando incide nella vita reale dei cittadini è lunghissimo, fra i sette e i dieci anni. In tempo di crisi, la capacità di prendere decisioni rapidamente è ancora più essenziale.
Ecco che qui nasce il sentimento di ingiustizia e di rabbia di alcuni cittadini europei: i singoli Stati sono incapaci di gestire fenomeni transazionali, mentre l’Unione è inefficace, perché non si trova nelle condizioni per poter agire e farlo in fretta.
Il sentimento anti europeo non è sparito, ha solo mutato pelle, ha cambiato il lessico. Il che lo rende poco misurabile, magari in un questionario tipo Eurobarometro. L’abbiamo visto, i sovranisti non parlano più di uscire dall’Euro ma accusano l’Unione di voler attaccare il Made in Italy e la dieta mediterranea. L’ “Europa matrigna” che vuole farci mangiare i grilli o impedirci di bere il vino è spunto di titolo da prima pagina dei giornali euroscettici. Questo euroscetticismo 2.0 è ampiamente alimentato dall’ecologia ideologica, ultraradicale e antiproduttivista incarnata da Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione.
Raffiche di testi e di obiettivi, uno meno raggiungibile dell’altro, tanti pure contraddittori. Basta citarne alcuni sull’agricoltura (il nuovo lessico sovranista, infatti è molto legato all’identità del cibo, che in Italia è fortissima).
La strategia Farm to fork, cioè la parte agricola del Green deal, fissa una riduzione degli agrofarmaci del cinquante per cento entro il 2030. Il centro studi della commissione ha calcolato che così la produzione di cibo in Europa calerà del quaranta per cento. Ma visto che la gente non smetterà di mangiare, il cibo mancante verrà importato da paesi extracomunitari dove sono autorizzati pesticidi cancerogeni, in Europa vietati da decenni. Stiamo quindi delocalizzando la nostra produzione di CO2, per dire che abbiamo rispettato degli obiettivi pensati senza studi d’impatto e in più stiamo distruggendo il nostro settore primario, esponendo i consumatori a prodotti meno sani di quelli prodotti in Unione.
Nella stessa strategia si specifica che l’agricoltura biologica deve raggiungere il venticinque per cento della produzione europea, ma anche in questo caso, senza aver fatto uno studio di mercato per sapere se ci sono le condizioni perché questo avvenga. Risultato? Già oggi una parte sia del latte e che della frutta prodotti biologicamente, viene venduta in via convenzionale, perché non c’è mercato bio, tanto meno potere di acquisto. E cosi le aziende rischiano di fallire.
Fissare gli obiettivi, senza aver fatto prima studi di fattibilità, è un metodo politico che alimenta l’euroscetticismo, che, come detto, nasce da una duplice inadeguatezza: quella delle singole nazioni di affrontare sfide comuni e quella europea di poter agire in fretta. Ecco perché per completare il processo di rifondazione servirebbe una costituente per riformare i trattati, oltre a togliere la necessità di unanimità al Consiglio. E poi ancora dare l’iniziativa legislativa al Parlamento europeo, procedere all’elezione diretta del presidente della Commissione, istituire le liste transazionali, allargare le prerogative esclusive dell’Ue.
Ma più di tutto servono forze politiche progressiste e pragmatiche che partono dai dati, analizzino le criticità e propongano soluzioni realistiche e realizzabili. Fra sovranismo identitario gastronomico e radicalismo ultra ideologico green, nel mezzo c’è il futuro dell’Europa. Altrimenti vuoto e rabbia prenderanno il sopravvento, mettendo a dura prova il progetto europeo, indebolendo il nostro Paese.