Con motivi diversi e tempistiche simili, sia a Roma che a Parigi si sta parlando sempre più di riforme e sistemi politici: da un lato, l’inclinazione di Giorgia Meloni verso una svolta presidenziale o semipresidenziale, e dall’altro la necessità per Emmanuel Macron di doversi confrontare con un modello politico giudicato come «sbilanciato» da parte della politica e della popolazione francese, soprattutto dopo l’approvazione della riforma delle pensioni.
Da tempo i leader italiani sognano di ridisegnare la figura del premier in chiave decisionista, ispirandosi al modello francese. Per anni, hanno fallito tutti; ora Giorgia Meloni pensa di poter estrarre la spada dalla roccia. In queste settimane, la premier ha esposto le sue idee in merito, finalizzate a conferire maggiori poteri al capo del governo. Proposte che hanno incontrato una forte resistenza da parte dell’opposizione, secondo cui questa svolta potrebbe concentrare troppo potere nelle mani di un singolo individuo.
Meloni, tuttavia, è determinata a far passare una riforma costituzionale che, a suo dire, garantirebbe all’Italia (la patria dell’instabilità in Europa: sessantotto governi diversi negli ultimi settantasette anni, stando alle statistiche) maggiore stabilità, dando voce in capitolo anche agli italiani. «L’instabilità ha arrecato danni alla nostra nazione, a differenza di Paesi come la Francia e la Germania», ha dichiarato di recente la premier ai giornalisti. «Questo clima ha causato la nostra debolezza economica e la disaffezione dei cittadini nei confronti di governi che sono stati fatti con accordi segreti senza che i cittadini potessero esprimersi».
Conflitti di potere e di interessi
L’opzione preferita da Meloni sarebbe l’adozione di un sistema semipresidenziale con cui trasformare il presidente della Repubblica da figura politicamente neutrale in un leader esecutivo eletto direttamente dai cittadini ogni cinque anni. L’opposizione sostiene che questo minerebbe la credibilità del Paese, poiché il presidente è tradizionalmente una figura di unità nazionale. «Non toccate il Presidente della Repubblica», ha detto pure la leader del Pd Elly Schlein. La carica, ha aggiunto, «ha garantito la stabilità nei momenti più difficili ed è una garanzia della credibilità internazionale dell’Italia».
«Il problema della proposta Meloni era evidente già in coda alla scorsa legislatura: il modello avanzato da Fratelli d’Italia presume di poter ottenere il risultato presidenziale francese attribuendo in costituzione al Presidente della Repubblica i poteri oggi posti in capo al premier. Inoltre, prevede la presenza di un primo ministro che deve ottenere la fiducia parlamentare, rischiando di creare un conflitto di poteri. In questo disegno, il Colle dovrebbe dettare l’indirizzo politico del governo, ma a Palazzo Chigi potrebbe esserci qualcuno con posizioni opposte», spiega a Linkiesta Salvatore Vassallo, docente di Politica Comparata presso l’Università di Bologna.
Un’alternativa emersa dalle consultazioni con i partiti è il cosiddetto premierato, un sistema che possa garantire maggiori poteri al primo ministro anche come figura eletta in modo diretto, senza stravolgere del tutto la Costituzione. Secondo Vassallo, «questa scelta, nonostante provi a salvare la figura del capo dello Stato, potrebbe essere una situazione comunque problematica: un tentativo ambizioso, considerando che l’elezione diretta del primo ministro non è presente in nessun sistema parlamentare».
«Ci sono una serie di soluzioni alternative, sicuramente più praticabili per la maggioranza», prosegue lo studioso. «Ad esempio, un sistema elettorale simile a quello elaborato da Tatarella per le regioni, che non sia connesso con l’elezione diretta del primo ministro ma che favorisca l’entrata in carica del premier come espressione del voto popolare, lasciando un margine di flessibilità. Penso che si arriverà a un meccanismo di investitura della maggioranza e del premier attraverso le elezioni, con regole che possano assicurare stabilità alla figura del presidente del Consiglio».
Come funziona in Francia
Valicando le Alpi, la situazione è differente, ma non del tutto dissimile: la pressione sul governo Macron è aumentata in modo significativo dopo l’approvazione della riforma delle pensioni, e di conseguenza è tornato l’elefante nella stanza per i francesi: il passaggio dalla Quinta alla Sesta Repubblica.
«Abbasso la Quinta Repubblica!» è stato uno dei canti più diffusi tra i milioni di manifestanti che per varie settimane sono scesi in piazza, nell’ambito delle proteste che hanno animato il Paese negli scorsi mesi. Con la Quinta Repubblica francese che si avvicina al suo sessantacinquesimo anniversario, ora potrebbe essere arrivato il momento di cambiare: la cosa, però, è più semplice a dirsi che a farsi.
«La riforma delle pensioni, nel complesso, non è un provvedimento particolarmente significativo di per sé» aggiunge Vassallo, «soprattutto se confrontato con gli interventi sul sistema pensionistico di altri Paesi europei. Ha generato conflitto perché Macron ha potuto, di fatto, approvarla da solo e gli altri soggetti politici non hanno potuto farci molto. Se da un lato è comprensibile che in tutte le circostanze del genere si rievochi la revisione dell’assetto costituzionale, dall’altro sembra anche piuttosto improbabile che qualcuno possa farlo davvero».
Unica in Europa, secondo i suoi critici la costituzione della Quinta Repubblica francese di fatto pone il controllo dell’esecutivo essenzialmente nelle mani di un uomo (finora è sempre stato un uomo, tra l’altro). Il presidente francese nomina i ministri del governo, è il capo delle forze armate, scioglie il Parlamento, promulga le leggi (o può porre temporaneamente il veto) e nomina alcuni membri del Consiglio costituzionale, che determina se le nuove leggi siano effettivamente legali.
In linea di principio, il presidente dovrebbe fare la maggior parte di queste cose di concerto con il primo ministro. Ma poiché è il presidente a nominare quest’ultimo, le sue opinioni sono, comprensibilmente, raramente un ostacolo ai desideri del leader. La Costituzione francese, ideata da De Gaulle a fine anni Cinquanta, contiene strumenti che permettono al governo in determinati casi di limitare radicalmente il dibattito parlamentare e di far passare la legislazione senza un vero e proprio voto parlamentare.
L’articolo 49.3 da De Gaulle a Macron
Vassallo spiega: «La Francia ha assunto questo assetto in un contesto peculiare: si è arrivati a un sistema drasticamente maggioritario attraverso un processo di approvazione senza esame parlamentare, con una riforma elaborata da un numero ristretto di persone e approvata con un referendum. Inoltre, De Gaulle godeva di un consenso larghissimo e il Paese viveva un momento storico particolare. Sarebbe complicato replicare un modello del genere in Italia, considerando queste condizioni eccezionali: è impossibile fare una riforma di questo tipo passando da due Camere e da un referendum confermativo».
La Quinta Repubblica francese, infatti, è nata tra la guerra in Algeria e un tentativo di colpo di Stato militare nel maggio 1958. Ciò che serviva era soprattutto stabilità ed efficienza legislativa: la precedente Quarta Repubblica, fondata nel 1946, aveva visto avvicendarsi più di venti governi, durati in media sette mesi. De Gaulle, eroe di guerra francese, ideò il suo sistema e lo rafforzò, quattro anni dopo, con un referendum che garantiva l’elezione diretta del presidente.
Questi strumenti sono stati utilizzati spesso dai predecessori di Macron: in particolare, l’articolo 49.3 (che consente all’esecutivo di bypassare il Parlamento qualora non fosse sicuro di ottenere la maggioranza) è stato usato un centinaio volte dal 1958. La manovra sulle pensioni è stata l’undicesima volta che Élisabeth Borne, primo ministro di Macron, ha invocato questa norma in dieci mesi di potere.
«Ci sono 49.3 ragioni per passare alla Sesta Repubblica», ha dichiarato la deputata di sinistra Raquel Garrido al canale televisivo Bfmtv poche ore dopo l’approvazione della riforma pensionistica da parte del Consiglio costituzionale francese.
La (sesta) Repubblica che non c’è
In un panorama politico instabile e fratturato e con un dibattito sempre più isterico, i detrattori della Quinta Repubblica – tra i quali c’è il leader dell’estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon con il suo partito La France Insoumise – sostengono che il potere centralizzato e solitario dei presidenti francesi non faccia che approfondire le divisioni e aggravare la sfiducia popolare nella democrazia. La Quinta Repubblica, suggerisce Mélenchon, ha fatto il suo corso.
«Questo sistema», osserva Salvatore Vassallo, «crea molto malumore nei non rappresentati, ma è molto difficile che una riforma possa prendere corpo: significa, semplicemente, che una forza politica al governo dovrebbe promuovere una riduzione dei suoi poteri. Non c’è motivo di pensare che Macron possa fare una cosa del genere».
Non c’è però nemmeno accordo su come potrebbe essere una Sesta Repubblica. Un sistema di tipo statunitense, con poteri maggiormente bilanciati? Un modello di tipo europeo, con un capo di Stato ampiamente rappresentativo? Oppure, come vorrebbe Mélenchon, referendum di routine, per dare potere al popolo? Sebbene non vi sia un chiaro consenso tra gli oppositori su cosa comporterebbe una riforma, la richiesta principale è quella di passare a una forma che dia più potere al Parlamento.
Eppure nel dopoguerra il sistema ha funzionato nel complesso. La Francia ha vissuto i suoi Trente Glorieuses: trent’anni gloriosi di crescita economica dal 1945 al 1975. Ha costruito i treni più veloci d’Europa, i Tgv; ha inventato il proto-internet, il Minitel; ha giocato un ruolo fondamentale nella nascita dell’euro; è diventata indipendente negli affari internazionali. Il modello presidenziale all’epoca ha rafforzato la postura internazionale francese: l’amministrazione parlava con la voce di un solo uomo e i leader stranieri sapevano sempre quale numero chiamare.
Il ciclo delle promesse (e come va a finire)
L’Italia, nella visione di Meloni e del suo partito, dovrebbe ambire a uno scenario del genere. Nonostante siano su due diversi estremi dello spettro repubblicano, il modello italiano e quello francese sembrano costantemente in crisi: da una parte, per la volontà riformatrice che ciclicamente riappare in Italia; dall’altra, in Francia, per i moti popolari e il dissenso dei cittadini, che periodicamente si fanno sentire in piazza.
Inoltre, è interessante come Giorgia Meloni voglia ispirarsi a un modello che appare così controverso nel contesto delle democrazie parlamentari, la cui concretizzazione potrebbe essere molto complicata. «Le riforme costituzionali sono state tentate varie volte in passato, ed è sembrato plausibile che si potesse arrivare a compimento: tuttavia, negli anni è stato fin troppo facile per gli oppositori ostacolarle. Questo dipende anche dalle caratteristiche delle riforme proposte», dice Salvatore Vassallo.
«Il momento della verità in questi casi è il referendum, che di solito arriva nella parte conclusiva della legislatura: spesso però i governi hanno visto un declino dei consensi di fine mandato». Infatti, aggiunge Vassallo, «se scorriamo la Storia, il dibattito sulle riforme costituzionali in Italia ha dato vita a un ciclo di tentativi sempre identico: la maggioranza entra in carica ed esprime le sue ambizioni sulle riforme costituzionali; l’opposizione, anche se prima ha sostenuto posizioni simili, alza le barricate; la maggioranza va in crisi di consensi presso l’opinione pubblica e finisce per pagare lo scotto alle urne».
«Questo dovrebbe consigliare cautela a Meloni, per ragioni politiche e tecniche. Un’altra componente storica di questo dibattito riguarda la campagna elettorale: i partiti che vogliono riformare, prima di andare al volto spesso promettono cose che non stanno in piedi. Nel caso del governo, il mito del presidenzialismo potrebbe portare l’esecutivo verso una proposta irrealizzabile», conclude lo studioso.