Ogni generazione guarda al passato per definirsi. Qualsiasi movimento artistico, culturale o di costume sente dentro di sé l’adrenalinica propulsione a circoscriversi anche e soprattutto partendo da chi e da cosa è avvenuto prima di lui. Questo vale anche per la moda. In un mondo, o meglio, in una nazione dove il prêt-à-porter deve ciò che è grazie al secolo scorso, i nuovi stilisti e designer che al giorno d’oggi provano ad attirare attenzione su di sé rischiano di rimanere schiacciati da un mercato saturo, occupato in prevalenza da mostri sacri che detengono la scena e non intendono affatto privarsene. I nomi tuttavia esistono e sebbene ancora non producano sommovimenti tali da innescare un cambio di paradigma, l’immaginario è a tal punto carico delle proiezioni e delle esigenze del tempo contemporaneo da contenere un cambiamento potenziale, senz’altro futuro, senz’altro in progressione.
Non ancora trentenni, metodici, ambiziosi, la maggior parte di loro ha seguito il classico, competitivo percorso che passa attraverso Londra, Parigi, gli atelier, i grandi marchi. Come Elisa Nencioli, ventottenne, toscana, allieva alla Marangoni di Milano e all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, formata all’interno della couture di Ermanno Scervino, in procinto di debuttare con la prima collezione a suo nome per la autunno/inverno 2023. Intitolata In my skin subito sottolinea il rapporto delle donne odierne col proprio corpo, col le linee, con le forme della carne. Le curve degli abiti sono morbide, accoglienti, ampie e anche laddove tendono a evidenziare, come succede per le maniche delle camicie, o nei lunghi abiti twisted, non marcano, non stringono, non calcano. Il dressing alla base delle creazioni di Nencioni è accogliente, contribuisce a generare intimità.
Del resto, mentre una volta l’imperativo categorico delle campagne era scandalizzare, irretire, ribaltare i codici e i modelli dominanti e compassati a cui l’immaginario dell’epoca era abituato, oggi le tre, pressanti tematiche che la moda deve necessariamente affrontare sono la sostenibilità, i paradigmi di genere e l’inclusione di criteri estetici più normalizzati. In un certo senso, dunque, si benedice, si predilige la semplicità, la coerenza, la chiarezza, una certa, candida trasparenza di stile e di produzione. L’eccesso si deposita, si scarica e al suo posto emerge, timidamente, la dolcezza dell’accettazione, della manifestazione di ciò che si è quando crollano le maschere carnevalesche, le pose sociali, mondane, le smorfie grottesche. Certo, gli elementi della lingerie di Nencioni sono storico appannaggio di un guardaroba femminile, per quanto a reintegrare l’uso del corsetto ha già pensato Dolce&Gabbana durante l’ultima settimana della moda maschile invernale. In ogni caso, questi capi si combinano con camicie gessate, giacche over size, pantaloni bustier, stecche, gonne a ruota, vite strutturate a bustino. Gli aspetti dominanti dell’estetica novecentesca vengono scardinati, destrutturati per approdare a una nuova, inedita simbologia umana. La storia dell’immagine si reinventa a partire dalle sue fondamenta.
Coetaneo, conterraneo, fruitore della stessa austera sobrietà androgina è Niccolò Pasqualetti: formatosi tra Venezia, New York, Londra e un primo tirocinio da Loewe come designer, si caratterizza, come molti, per la capacità di creare visioni, atmosfere, personaggi da copione. La donna e l’uomo che ha in mente sono avvolti da una patina da cinematografo: lei è inavvicinabile, languida, la descrive, la presenta nel contemporaneo traffico cittadino, magari su un marciapiede, e tuttavia contenente un persistente motivo antico, rarefatto, aristocratico.
Pasqualetti stesso ha dichiarato che la immagina come protagonista di un film di Marlene Dietrich. A metà tra una signora che indossa «un finto procione, un rullo di quarzo, un vaso di ceramica» come gioielli, come collane, «come promemoria da portare al collo» e una giovane a una festa che porta un vestito di pailettes, ammantata di grazia, glamour e coraggio.
Il suo lui, d’altro canto, è classico, tradizionale, retrò, in smoking, in un abito «da fumatore», le cui linee sartoriali sono precise, definite. E al tempo stesso però sfumano nell’astrazione, improvvisamente i pantaloni deviano in una gonna a ruota, il gilet ha sporgenze affilate, le spalle della giacca sono tagliate e le maniche sono «del tutto scomparse». Ecco dunque che di nuovo maschile e femminile si intrecciano, si alternano, e i tessuti ne sono la prova: la ruvidità del sablé accanto alla morbidezza del finto astrakan, la commistione tra organico e sintetico, la lana vicino al batista. Tutti ricavati da scorte inutilizzate o in disuso.
Niccolò Pasqualetti ha vinto il premio Franca Sozzani a “Who is next?” ed è arrivato semifinalista al premio LVMH nel 2022. L’indipendenza dalle asettiche, rigide divisioni binarie, una ferrea trasparenza ambientale, l’attaccamento a processi produttivi rigorosamente sostenibili per Flora Rabitti, a capo del brand Florania, poco più che trentenne, confluiscono in capi total look, disegnati e realizzati a mano tra Milano e Mantova, la sua città natale, dove lavora al fianco di sarte e modelliste.
Non a caso, dopo avere studiato alla Central Saint Martin London e all’Institut Français de la Couture Paris, e vincere il Fur Futures London Award nel 2014, Flora Rabitti presenta il marchio a settembre 2022 e a febbraio 2023 tra i “Designers for the Planet” e “Milano Fashion Week Forward” con il supporto della Camera della Moda italiana. I suoi primati veleggiano tra Milano, Tokyo e New York, dove a settembre è stata nominata International Emerging Designers alla Sakura Collection di Brooklyn. E perfino a Zanzibar, alla Swahili Fashion Week del dicembre 2021, come New Italian Designer.
A partire dai colori, dalle tinte rubizze, dalle stoffe cucite insieme e che creano insoliti rimandi provenienti dal mondo della letteratura, del fumetto, della televisione, la collezione autunno/inverno 2023 presenta tratti già più istrionici: la graphic novel suit è un completo che pare essere uscito direttamente da un cartone animato, ci riporta al tempo della nostra infanzia. L’abito lungo tinto a mano con rubia indiana sembra un chiaro riferimento a Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood. La gonna a tubino in denim con cotone riciclato appartiene a un’epoca passata, gli anni Novanta magari, o forse sono i Sessanta, considerato l’omaggio ai fiori, alle fate, all’estetica hippie della campagna precedente, e in una sua seconda versione si confonde, si mimetizza con stoffe militari.
Florania e Niccolò Pasqualetti hanno ottenuto il finanziamento del fashion trust della Camera della moda che si è tenuto nei giorni scorsi a Milano, insieme a Marcello Pipitone. Marcello Pipitone ha ventisette anni e, a differenza degli altri due, è milanese. Questo dettaglio torna, scava nella sua carriera da fashion designer, ne è il filo trainante: il quartiere dove è nato, Bonola, è diventato il pretesto su cui basare il crocevia di tutti i suoi abiti. Guardandoli si scivola in una dimensione alternativa, parallela, in un racconto che la città di Milano ha già contribuito a diffondere grazie al rap. Nessuno finora aveva portato la periferia meneghina, metropolitana, urbana tra le fila dell’alta sartoria.
Diversamente dalle correnti superbe delle collezioni di Pasqualetti, Pipitone si concentra sull’abbigliamento sportivo, sulla strada. Tombini, cancelli, ringhiere, i colori delle tute acetate, gli elementi dello street art si scompongono e si ricompongono. Soprattutto, si oscilla tra una rappresentazione di staticità, di paralisi, di immobilismo, dove certe zone residenziali ai margini del centro sono rimaste identiche all’eredità lasciata agli esordi del nuovo millennio, e un tentativo di sottolinearne invece le strategie di riscatto sociale, di arricchimento, di dinamismo, di progresso.
Pipitone conserva al suo interno questa contraddizione, questo dubbio: da una parte la passione calcistica per il Milan, l’atletica e la pallacanestro praticate a livello agonistico, il concetto di appartenenza che si intravede anche nel logo del brand dedicato alla città di Milano, dall’altra la fatica economica, la borsa di studio per accedere allo IED di Milano; da una parte, la lentezza, la gente comune, il gruppo, la famiglia, i fattori che attivano e innescano il processo creativo; dall’altra, la modernità, il trapasso generazionale, la faccia tosta, l’uso di materiali come la pelle, l’assemblaggio attraverso l’upcycling e il patchwork. La collezione si intitola “Metropoli” e il colore dominante è il rosso: rosso come la sua squadra, rosso come le divise di Michael Jordan e Valentino Rossi, rosso come la linea della metropolitana che conduce alla stazione di Bonola.
Per un esempio di espressione massimalista, allegra, vivace, fiorita bisogna invece compiere un salto dalle logiche ornamentali di Marcello Pipitone e approdare nell’universo di Cavia: fondato da Martina Boero, trentaquattrene, ex allieva dello IED, il brand realizza unicamente capi di maglieria e lavorati all’uncinetto. I materiali provengono da tessuti già esistenti allo scopo di rielaborarli, riutilizzarli, trasformarli. La sensazione che si ha sfogliando la collezione è di essere inciampate per caso in un baule di stoffe dentro un cottage di campagna. Il processo di creazione di Cavia è a tal punto poco diverso e distante da questo che promuove un’idea di sostenibilità ecologica esemplare, unica nel suo genere. Sono artigiani locali che tessono, cuciono, filano, seguendo la ferrea convinzione di Martina che nulla oggi debba essere prodotto da zero.
Poiché abitiamo un mondo farcito, ingolfato, saturo di merci, non riuscire a essere inventivi con ciò che si possiede già sarebbe contro intuitivo. Cavia è nato proprio da un guizzo di vitalità durante il perdurare straniante, angoscioso, lento del lockdown del 2020: i negozi erano chiusi, era proibito uscire di casa, la sola via di fuga consisteva nell’avventurarsi all’interno di sé. Così, recuperando vecchi filati in soffitta, è letteralmente sorto un abbigliamento nuovo di zecca.
Infine, sebbene la genesi che lo caratterizza si discosti un po’ da quelle finora citate, è stata presentata la prima collezione primavera estate di Rovi Lucca al Pitti Uomo 104. Il marchio nasce da una collaborazione tra due esponenti già navigati del mondo del lusso: Fabrizio Taliani, ex responsabile del design da Ermenegildo Zegna e Bradley Seymour, ex direttore creativo per Esquire e Marie Claire. Qui si torna a una concezione della moda altera, compiaciuta, principesca. I capi, interamente maschili, si propongono di tratteggiare costumi da dimore estive, all’inglese, dove a dominare incontrastato sullo sfondo è il panorama toscano, per la precisione quello lucchese, la città originaria di Taliani.
Si guarda ai luminosi, fatiscenti e segreti giardini delle proprietà nobiliari, agli orti botanici e delle specie esotiche e naturali che celano al loro interno. Il nome stesso richiama ai rovi intricati di queste oasi urbane, soliti presentare spine e more di stagione. Passando davanti a un cancello chiuso, può capitare di indugiare con lo sguardo tra le sue fessure e scorgere un uomo in tenuta da giardinaggio, chino sui cespugli di rose. Probabilmente è vestito Rovi Lucca. Avvolto da tenui variazioni cromatiche novecentesche, a metà tra le due guerre, o direttamente in pieno alla seconda, quando i nobili fuggivano nelle case della sterminata, sconfinata prateria vicino Londra per rifugiarsi dai bombardamenti, e si dedicavano alla caccia, incontravano soldati in congedo, si crogiolavano nell’otium letterario. Una perfetta ambientazione per i romanzi onirici di Virginia Woolf o per i piaceri proibiti de L’amante di lady Chatterley, che tipicamente esplodono nei contesti isolati, anomali, lussuriosi della natura e dei rifugi.