Fiato sospesoPerché le installazioni di Benjamin Langholz stanno cambiando il concetto di opera d’arte

L’artista californiano realizza sculture interattive e cinetiche con acciaio e pietre, unendo più elementi: meditazione, bondage, sport e arte pubblica

Benjamin Langholz, BEAM, Burning Man, 2022

Il lavoro “epico” di Benjamin Langholz sta catalizzando lattenzione internazionale con le sue grandi sculture interattive e cinetiche, realizzate per lo più in pietra e acciaio. Lartista californiano, che dal 2018 lavora a Berlino, definisce il proprio lavoro come «strumento corale nato per raccogliere e trasmettere dei sentimenti». Le sue installazioni portano chi le vive a conoscere e sperimentare sentimenti e stati emotivi nel e attraverso il proprio corpo.

Le sue installazioni, chiamate dall’artista “sculture”, sono un modo per colmare il divario tra il mondo interiore delle emozioni e il mondo esterno dell’esperienza fisica. L’artista chiede al visitatore di entrare in una conversazione più profonda con il paesaggio e con la natura circostante. Le sue opere non sono quindi solo unesperienza immersiva, ma una sfida a tutto tondo per arrivare infine a conoscere meglio se stessi.

Sempre più amato dal grande collezionismo internazionale, il suo lavoro esplode nel 2019 grazie alla collaborazione con l’ingegnere Amihay Gonen. Tra le sue opere divenute in breve tempo iconiche, anche le sculture Beam – Burning Man 2022, Stone 40 – Radical Horizons the Art of Burning Man, Chatsworth House UK 2022 e Stone 27 – Burning Man 2019, ora in una collezione privata a Marin, CA. Abbiamo così deciso di intervistarlo, comprendendo che dietro a Benjamin Langholz c’è un complesso e affascinante mondo interiore, in grado di unire in un modo del tutto originale meditazione, bondage, body-art, sport e arte pubblica.

Benjamin Langholz, Stone 27, Private collection, Marin CA 2021

Hai studiato in America, ma hai girato il mondo prima di arrivare a Berlino. Sei un nomade per necessità o vocazione?
Il viaggio è parte dell’esistenza. Senz’altro è stato molto utile e avvincente vivere in un paese di cui non si parla la lingua e che ha addirittura un alfabeto diverso, come in Giappone. Sentivo di star vivendo in una bolla di presenza, senza le distrazioni della pubblicità o le conversazioni. Ho avuto modo di vivere nella realtà che immaginavo intorno a me. Era bello e sempre un po’ misterioso. Mi è piaciuto. Berlino è poi capitata nel mio percorso: originariamente ero attratto dalla sua cultura alternativa, aperta a idee e avvenimenti strani. In questa città ho incontrato l’ingegnere Amihay Gonen, con cui collaboro ancora oggi, ed è diventato anche un terreno fertile per lavorare. Così, nel 2019, sono nati due lavori per me molto importanti: Stone 7 e Stone 27.

Puoi descrivere l’idea alla base del tuo lavoro?
Il mio lavoro crea un insieme di circostanze che consentono la trasmissione di sentimenti che ho provato o stati del corpo che ho sperimentato. Penso alle opere d’arte non in termini di immagini o materiali specifici, ma piuttosto tutto nasce per essere una sensazione reale che condivido con il visitatore, che è chiamato a vivere fisicamente l’esperienza del mio lavoro. Quando ho successo, questa trasmissione è la più alta e fedele forma di empatia: vorrei sempre che le persone con cui sto comunicando percepiscano come mi sono sentito, che i loro corpi assumano lo stato in cui si trovava il mio. Le parole non riescono a farlo in modo efficiente. Il corpo lo può fare molto meglio.

Il tuo lavoro ha connotazioni anche estreme nella prova fisica, che sembrano portare nello spazio aperto la body art di Marina Abramović. Da dove hai tratto ispirazione?
In realtà nel mio lavoro c’è meno società e più interiorità. Molti anni fa ho visto un documentario sulla coreografa tedesca Pina Bausch. Ricordo un momento del film in cui mostrava una delle sue coreografie e ho avvertito il senso di una trasmissione ricca e prepotente. Allo stesso tempo, però, mi rendevo conto questo tipo di comunicazione non poteva essere tradotto accuratamente attraverso le parole. Così mi sono interessato molto alla comunicazione non verbale e ho viaggiato per il mondo alla ricerca di diversi metodi e tecniche riuscire a trasmetterla. Ho studiato danza in Israele, fatto trekking in Nepal, yoga e meditazione in India, digiuno, body suspension, e molto altro ancora. Questa ricerca alla fine mi ha portato a creare il lavoro che faccio oggi.

Benjamin Langholz, Stone 27, Burning Man 2019

Praticamente come realizzi le tue grandi installazioni?
L’elemento cardine è la pazienza: tutto parte dall’ascolto del mio corpo in continua trasformazione. In queste condizioni, inevitabilmente mi verrà in mente un’idea per una nuova scultura. In questi primi momenti visualizzo il lavoro completo, quasi una visione profetica. La sfida sta nel riuscire a difendere questa visione che cambia e che deve cambiare per soddisfare le esigenze del mondo reale di fronte ai molti vincoli di budget, tempo, responsabilità, gravità, ingegneria e opinioni. Eventuali aggiunte o sottrazioni al nucleo di lavoro generalmente portano solo a degradare e depauperare la chiarezza di ciò che sto cercando di trasmettere.

Qual è il tuo rapporto con la materia e i diversi media? Realizzi qualcosa tu stesso o progetti e lo fai fare agli altri?
Pietra, acciaio, corda e legno. Mi interessano tutti gli elementi fondamentali del mondo costruito e quelli che erano naturalmente qui molto prima di noi. Quando lavoro con le pietre le estraggo il più vicino possibile da dove verrà collocata la scultura. Il mio sogno sarebbe di impiegare solo ciò che si trova già in quel luogo, come avveniva nell’antichità. D’altro canto, ho un background tecnico e amo la precisione. Nel mio lavoro utilizzo il design assistito dal computer, soprattutto durante la progettazione della struttura di supporto. Integrare questo processo tecnico agli elementi strutturali consente di ridurre al minimo il supporto, che infonde nel visitatore un senso di impossibilità e incertezza, portandolo a domandarsi se ciò che sta vedendo è possibile e se ciò che sta per sperimentare con il proprio corpo sia effettivamente sicuro. Questo è essenziale per il mio lavoro, riuscire a introdurre lo spettatore a uno stato di sospensione e di incredulità, ma anche di affidamento all’ “altro”.

Ovviamente le tue opere non possono essere fatte da te solamente. Come funziona il processo creativo di realizzazione della tua arte?
Al momento sono coinvolto nell’intero processo di produzione delle mie opere. Ho dovuto imparare tanto e sviluppare molte abilità per riuscire a materializzare il mio lavoro: dalla creazione di modelli CAD, lavoro con macchine CNC, materiale di approvvigionamento, progettazione di fabbricazione, saldatura, gestione dei progetti, guida di macchinari pesanti, carico e trasporto di materiali, gestione di campagne di crowdfunding, realizzazione di video concettuali di rendering 3D e stesura di domande di sovvenzione. Voglio realizzare grandi opere e per questo ho dovuto imparare ogni passo del processo per massimizzare ciò che può essere creato con le risorse disponibili.

Sono continuamente ispirato a prendere parte al processo creativo, cercando di imparare i dettagli dei materiali e di introdurre sempre nuovi aspetti in ogni progetto. È un apprendimento costante. Ho avuto la fortuna di avere intorno a me un meraviglioso gruppo di persone che mi aiutano in ogni progetto, dalla pianificazione alla fabbricazione, fino all’installazione. Ogni progetto mi permette di conoscere persone nuove da tutto il mondo, espandendo il mio nucleo di amici. Mi dedicano il loro tempo e la loro energia e sono molto grato della fiducia che ripongono in me. In futuro, prevedo la necessità di produrre più lavoro contemporaneamente. Spero di diventare meno controllante e riuscire a delegare alcuni compiti, coinvolgendo persone che siano più competenti di me in aree tecniche specifiche.

Il tuo lavoro è molto scultoreo, anche se ha una forte parte performativa. Senza l’intervento del pubblico il tuo lavoro ha senso
Concepisco tutte le mie opere come interattive. Se un visitatore non è invitato a interagire con il lavoro, allora il lavoro non è pienamente realizzato. Questo può essere un po’ complicato quando sto lavorando a pezzi destinati a luoghi pubblici. A volte mi consigliano di realizzare anche sculture decorative, ma per me questo non è giusto. Né è corretto installare dispositivi di sicurezza come corde, imbragature o reti. Questi strumenti trasmettono al visitatore l’idea di pericolo e di fallimento. Le reti di sicurezza implicano l’idea che il mondo sia responsabile delle decisioni individuali e che – letteralmente – ti cattura, se cadi. Queste protezioni spesso proteggono dall’esperienza stessa. Il mondo non è sicuro e nemmeno lo è l’esperienza del mio lavoro. Mi rifiuto di ingannare i visitatori: voglio che l’opera d’arte sia più autentica possibile e il pericolo del mondo ne è parte. Una rete che garantisce la sicurezza distrae completamente dagli ingredienti che creano la sensazione che sto cercando di trasmettere. Sono molto fortunato ad aver avuto opportunità che mi hanno permesso di esprimere pienamente la mia visione, insieme anche al sostegno di altri, che condividono l’importanza di assumersi le responsabilità del rischio nelle azioni volontarie.

Il tuo lavoro, infatti, non è semplicemente interattivo. Spesso proponi al tuo pubblico una sorta di sfida corporea, quasi sportiva. Il tuo lavoro sembra unire lo sport all’arte, o sbaglio?
C’è sicuramente un elemento di azione, o – in alcuni casi – la minaccia di un’azione. La sfida è parte integrante del mio lavoro e per questo molte persone hanno sperimentato la mia arte come profondamente meditativa. Non si tratta di esplosioni di energia, o di esercizi di forza bruta, ma piuttosto di controllo della corporeità, in cui l’allineamento mente-corpo è fondamentale. Non si può mai lasciare che la contemplazione del rischio sia la voce primaria. Prendi ad esempio Beam: la superficie che si calpesta è più ampia di quella di un piede (35 cm di larghezza).

Non è possibile che sia fisicamente difficile camminare. Le cose diventano interessanti man mano che la superficie sale, progressivamente, sempre più in alto nell’aria. Ad ogni tuo passo, la possibile conseguenza dell’azione diventa maggiore. Mentre guardavo la gente che si divertiva a Burning Man 2022, ho potuto osservare chiaramente il momento in cui nella mente del visitatore si inizia a valutare le conseguenze di quanto si sta facendo, ovvero il rischio di poter cadere dall’alto, che superava la “ricompensa” data dalla conclusione dell’esperienza. Queste opere sono efficaci e hanno un forte impatto senza necessariamente salire sulla scultura. Basta confrontarsi con se stessi, conoscersi: l’invito all’esistenza è già una trasmissione di ciò che ho sentito.

Quindi il tuo lavoro porta alla meditazione attraverso la sfida con i limiti del proprio corpo?
La mente delle persone è bombardata in continuazione. E forse abbiamo perso una certa ricettività agli stimoli per via di un sovraccarico sensoriale sempre più pesante. Il corpo, tuttavia, è universalmente, costantemente desiderio di comunicazione.

Benjamin Langholz, BEAM – Burning Man, 2022

Nella tua arte il tema del legare e sospendere nel vuoto ricorre molto. Sei stato influenzato dal maestro giapponese Nobuyoshi Araki?
Appendere cose, o posizionarle in modi che altrimenti non si troverebbero è affascinante. Soprattutto oggetti con grande massa o cose che di solito non si vedono appese. Per esempio, Sculture di cavallo di Maurizio Cattelan. Forse ha a che fare con l’ossessione umana per il volo, o per il disagio che proviamo quando siamo appesi in aria. Anche quando sappiamo che è tecnicamente sicuro, è comunque difficile riuscire a rilassarsi in quella posizione. Araki per me è stato molto importante: ho raccolto alcuni dei suoi libri fotografici, e sono stato a molte delle sue mostre. Del resto, quando mi sono trasferito a Tokyo nel 2016, sono subito andato alla ricerca di un insegnante di Kinbaku, il tradizionale bondage di corda giapponese, ampiamente ripreso nelle fotografie di Araki.

Questa tecnica, chiamata anche Shibari, è un modo per trasmettere emozioni direttamente alla persona che stai legando. Poco dopo il mio arrivo ho incontrato e poi sono diventato l’apprendista di Kinoko Hajime, maestro contemporaneo di Kinbaku. Legando centinaia di persone, ho imparato come influenzare intimamente l’altra persona. Ho anche imparato a conoscere l’installazione su larga scala da Kinoko. Fu il pioniere della pratica di creare grandi reti di corda e posare dei “modelli” al loro interno. Da qui, le corde nel mio lavoro: ero interessato a creare uno spazio che desse a qualcuno la sensazione di essere legato semplicemente entrandoci. Questo fu l’inizio delle mie esplorazioni con la scultura e la trasmissione di uno stato del corpo. Ho esplorato queste idee iniziali usando corda, luce, specchi e suono nelle mie prime installazioni alla Design Festa Gallery di Shibuya, a Tokyo, nella primavera del 2017. Ancora oggi uso molto di quello che ho imparato in termini di come le cose pendono e si muovono nello spazio, ma la cosa più importante che ho imparato dal mio studio di Kinbaku è prevedere come gli esseri umani saranno influenzati da circostanze e stimoli.

Il tuo lavoro vive sempre di una perfetta documentazione fotografica, quasi cinematografica. Che ruolo ha la documentazione delle tue installazioni-azioni? Sono opere d’arte che vendi?
Grazie per averlo detto! Documentare il mio lavoro è quasi un’ossessione. Documento anche la fabbricazione e l’installazione di una scultura, il più possibile. Mi piace vedere come le cose sono fatte e assemblate; quindi, filmo un timelapse del processo da condividere con gli altri e a cui fare riferimento. Purtroppo la maggior parte delle persone non sarà in grado di sperimentare il mio lavoro fisicamente, perciò la documentazione è assolutamente essenziale per me. Questo è particolarmente vero per Burning Man, poiché le sculture sono installate solo per una settimana, e a volte mi sento come se non stessi facendo del mio meglio per catturare il lavoro. Quando scomparirà, cosa rimarrà? Caso strano, non mi è mai capitato di vendere le immagini del mio lavoro finora, ma potrei in futuro, anzi ne sarei felice, perché vorrebbe dire che il mio lavoro è stato compreso per quello che è veramente.

Benjamin Langholz, BEAM – Burning Man, 2022

La pietra grezza da te impiegata ricorda molto l’arte povera del famoso artista italiano Giovanni Anselmo. Lo conosci?
Ammetto che non lo conoscevo, ma ho cercato alcuni dei suoi lavori e trovo molto emozionante questo tipo di arte minimalista, che gioca con la massa come elemento compositivo all’interno di una galleria. Sono anche un grande fan di Jose Dávila. Ho sognato di fare questo tipo di composizioni, ma non so ancora se trasmetteranno quello che sento o se saranno davvero efficaci senza interazione diretta. Ma forse è segno che devo avere ancora pazienza per trovare una soluzione efficace per riuscire a portare il mio lavoro in uno spazio chiuso.

Per concludere, in fondo la natura è la scenografia naturale in cui da sempre ti muovi, o sbaglio?
Verissimo! Sono sempre stato più ispirato dai momenti che ho vissuto nella natura. Muovendomi tra le rocce posizionate dalle forze della Natura sui ruscelli di montagna è nata la mia riflessione sulle rocce e su come tali esperienze comuni e semplici abbiano determinato ciò che sono, molto più di altri momenti. La natura mi permette sempre di raggiungere un momento di coscienza pura e autentica. Però il mio lavoro ha una forte componente ingegneristica e monumentale. Sono stati per anni due mondi che non si sono parlati nella mia vita: la natura da un lato e l’artificio umano dall’altro.

Tutto si è riunito nel 2018, quando sono stato invitato a creare una scultura in un ambiente naturale quale lo Spokane di Washington. Per me è stata una sfida, ma come sempre da questi momenti nascono le grandi cose. A un certo punto di crisi di idee ho realizzato che avrei potuto sospendere una singola pietra al posto delle persone che avevo imparato a legare in aria in Giappone. Ho avuto così la possibilità di creare il mio sentiero meditativo di montagna e di condividerlo con tutte le altre persone. È nata così l’idea per la pietra 1, un’intuizione deflagrante che ha riunito tutto il mio essere nelle mie opere.