To be FairObama, Maher e la sfida culturale dei moderati anti woke

È possibile essere criticare le teorie della sensibile sinistra americana senza apparire come i vichinghi che hanno assalito il Campidoglio il 6 gennaio? Per ora no, visto che il manicheismo ha la meglio. Ma bisogna comunque provarci

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Se domani Mike Tyson decidesse di identificarsi come donna, potrebbe partecipare ai campionati femminili di boxe? Saremmo pronti a vedere i suoi pugni scontrarsi con la mandibola di una donna-nata-donna? Lo sport, nella sua struttura ben codificata di regole funzionali all’equilibrio dei risultati, è forse lo scoglio più duro dove si scontrano le diverse teorie sul genere. Il record di velocità nei cento metri maschili, ad esempio, è di 9,58 secondi, mentre in quelli femminili è di 10,49. Se domani Usain Bolt si identificasse come donna avrebbe la certezza di vincere qualsiasi gara. Ma dire, oggi, che sia ingiusto che un ex-uomo possa gareggiare alle Olimpiadi con le donne, provocherebbe l’ira di molti che difendono l’autoidentificazione.

Esprimere dissenso, anche in modo cauto, spesso viene accolto da grida di rabbia, piagnistei e, in certi ambienti lavorativi – ad esempio, nei college americani o nello show business – dalla richiesta di dimissioni.

Sembra esserci, nell’arena pubblica, soprattutto negli Stati Uniti, una pressione automatica che spinge agli estremi. Da una parte i Social Justice Warriors non accettano sfumature – basta guardare cos’è successo a J.K. Rowling, l’autrice di Harry Potter, che ha fatto commenti considerati transfobici. Dall’altra l’anti-wokismo militante è un’arma ideologica in mano alla destra, e troppo spesso a quella più estrema. 

Il governatore della Florida Ron DeSantis, considerato un’alternativa a Donald Trump, sta basando la sua candidatura nelle primarie repubblicane quasi solo sull’opposizione all’ortodossia woke. Uno dei suoi slogan è «Florida: dove il wokismo va a morire». Sono innumerevoli le dichiarazioni dei più demagogici e populisti membri del Grand Old Party e dei presentatori di FoxNews contro pubblicità, film, copertine con uomini incinta e contro l’insegnamento di alcune teorie nelle scuole. 

Ma davvero possiamo mettere nello stesso paniere gli spot sul Pride Month della Budweiser e gli articoli accademici femministi sulla cultura dello stupro dei cani maschi nei parchi pubblici? E ci si chiede: è possibile avere alcune posizioni contro le varie teorie che nascono dall’universo woke senza apparire come i vichinghi che hanno assalito il Campidoglio il 6 gennaio? Può un uomo bianco indossare un kimono, un sombrero, un thawb, senza esser considerato un nostalgico della segregazione razziale? Si può essere contrari ai trigger warning e alle modifiche dei testi di Mark Twain senza sembrare quei pazzi no-vax che credono nei complotti del Deep state e vanno in giro a dire che Hillary Clinton è una rettiliana?

C’è chi qualche anno fa, a seguito delle proteste per l’uccisione di George Floyd che resero mainstream il megafono woke, ha cercato di togliere dalle mani dell’AltRight la prerogativa all’insofferenza verso le idee delle culture wars. È stata fondata Fair, Foundation Against Intolerance & Racism, una no-profit che aveva l’obiettivo di combattere lo psicodramma woke senza apparire come membri del Klu Klux Klan. 

Fair da alcuni anni agisce con cause legali, campagne educative e di informazione per cercare di correggere alcuni errori fatti dal wokismo in America, soprattutto nelle scuole. Fair è riuscita ad aiutare la regista Meg Smaker che era stata rinnegata dal Sundance Film Festival perché uno dei suoi film, un documentario su ex jihadisti che seguono un programma di deradicalizzazione, era stato bollato come islamofobico. Diversi critici avevano detto: «Una donna bianca non può parlare di musulmani sauditi». Dopo l’azione della no-profit si è deciso di distribuire il film. 

Un altro caso in cui Fair è riuscita ad avere dei risultati ha avuto a che fare con un caso, sempre più comune, di esclusione in base all’etnia – la Brown University offriva un corso di mindfulness aperto solo a insegnanti non-bianchi e Fair è riuscita, tramite gli avvocati, far modificare il corso. La storia di Fair, che poi ha avuto alcune diatribe di management interno, è stata raccontata di recente da un pezzo del New Yorker intitolato, appunto “Si può essere sia moderati che Anti-woke?”. 

Uno dei fondatori della no-profit Bion Bartning ha raccontato alla rivista che tutto è partito quando ha visto nel programma della scuola delle figlie, una scuola privata d’élite newyorkese, un’ossessione per la razza come unica chiave di lettura della nostra identità, e una minimizzazione della Shoah e dell’antisemitismo. «Un’ortodossia intollerante sta minando la nostra umanità comune, mettendoci uno contro l’altro», twittava Bartning, che è mezzo messicano e mezzo ebreo. Ha raccontato al New Yorker che era interessato ad articolare una missione che non fosse contro qualcosa, ma per qualcosa. «Non anti-woke, ma pro-umano, cioè vedere sé stessi e gli altri come individui unici, connessi con tutti gli altri tramite un’umanità condivisa».

Una delle voci pubbliche che tenta di colpire entrambi gli estremi è il comico Bill Maher, che ha un suo programma dal 2003 su HBO. «In America ci sono quattro tribù – ha detto Maher di recente alla CNN – i progressisti vecchio stile, i conservatori vecchio stile, che sono la maggioranza, e poi ci sono i wokster e i trumpiani, e questi ultimi due gruppi non fanno alcun favore al paese». Secondo Maher, il wokismo è partito come una cosa positiva – «essere all’erta sulle ingiustizie» – ma è diventato un movimento illiberale. Anche Barack Obama rispondeva al wokismo dicendo che «il mondo è incasinato» e anche «mi sembra che per molti cambiare le cose significhi essere giudicante sui social».

Fair, Obama e Maher sono le eccezioni, in America il manicheismo ha la meglio. I Democratici, sembrano sotto la minaccia costante dei combattivi studenti universitari e camminano sulle uova, prigionieri della paura di sbagliare, di passare per terf o per eteronormativi privilegiati. Per i liberal più moderati non c’è spazio di dialogo, come ha scritto Guia Soncini ne L’era della suscettibilità: «Gli estremisti di sinistra vedono nei moderati di sinistra il loro più acerrimo nemico, detestano il dubbio e la complessità e le sfumature ben più di quanto detestino la destra». 

E lo stesso grado di sottomissione al terrore che vale per i dem si applica alle grosse aziende che si piegano alle pressioni di una minoranza furente di potenziali consumatori per evitare di risultare bigotte, fasciste o non sufficientemente sveglie – e quindi via di bandiere arcobaleno, ormai già vecchie, sui pacchetti di biscotti – e all’industria dell’intrattenimento, basti pensare alle nuove regole per partecipare agli Oscar. 

Da quest’anno per presentarsi agli Academy Awards almeno uno degli attori principali dovrà essere di un gruppo etnico sottorappresentato (cioè, non bianco), e la trama dovrà trattare temi quali minoranze etniche, difficoltà delle donne, delle persone con disabilità o della comunità LGBTQ+, e tanti altri nuovi diktat che, ha detto Richard Dreyfuss, «fanno vomitare».

 

Quindi, si può essere anti-woke senza sembrare pazzi? Togliere il copyright della ragionevolezza all’AltRight e smettere di avere paura di una minoranza di farisaici presuntuosi? Sembra che il vero blocco sia la fobia, di offendere, di essere esclusi, di essere additati come insensibili. Diceva Christopher Hitchens: «Se qualcuno mi dice che ho ferito i suoi sentimenti, aspetto di sentirmi dire perché sia un problema».

 

 

 

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