Qualche giorno fa la ministra del Clima e dell’Ambiente, Anna Moskwa, ha annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte di giustizia europea per bloccare lo stop all’immatricolazione di auto e furgoni a motore termico a partire dal 2035. «Non siamo d’accordo con questa misura e con altri passaggi del pacchetto Fit for 55 – ha dichiarato Moskwa – ora ci rivolgeremo alla Corte di giustizia europea per far valere le nostre ragioni. Presenteremo la mozione nei prossimi giorni e spero che altri Paesi si uniscano alla nostra iniziativa».
A fine marzo la Polonia era stato l’unico Paese a votare contro il regolamento che dal 2035 vieterà la vendita di automobili alimentate a benzina e diesel. Dietro il posizionamento di Varsavia c’erano delle ragioni di mercato – secondo l’Agenzia polacca per lo sviluppo e il commercio (Paih) l’automotive costituisce al dieci per cento dell’industria – ma anche il tentativo di coprire il fallimento del governo in tema di elettromobilità. Nel 2016 il primo ministro, Mateusz Morawiecki, aveva presentato un piano di sviluppo del settore che prevedeva la messa in circolazione di un milione di auto elettriche entro il 2025. Un obiettivo irraggiungibile dal momento che l’anno scorso, tra ibride e completamente elettriche, il totale di veicoli sulle strade polacche era inferiore alle quarantamila unità.
Quella sullo stop ai motori a scoppio era stata una trattativa travagliata in cui alla fine Varsavia è rimasta isolata. Eppure le premesse erano diverse. Inizialmente a esprimere dubbi sul regolamento, oltre alla Polonia, c’erano diversi Paesi, tra cui Germania, Italia, Bulgaria, Romania e gli altri tre di Visegrád. Il nodo più grande era rappresentato da Berlino, con cui però alla fine si era giunti a un compromesso includendo una deroga per i carburanti sintetici (e-fuel).
In questo modo la Germania si era spostata verso il “sì”, mentre altri Paesi – Italia inclusa – avevano preferito astenersi. Secondo Varsavia, quella nei confronti di Berlino, con cui è in rotta di collisione da anni, è stata una gentile concessione da parte dell’Europa.
Le sfide energetiche, un fragile equilibrio
L’annuncio della ministra Moskwa sorprende, ma fino a un certo punto se si considera il contesto in cui è maturato. Da anni il governo di Diritto e Giustizia, partito di destra nazionalista, si muove in direzione ostinata e contraria rispetto a quello che fa (e dice) Bruxelles. Attualmente la Commissione tiene bloccati 35,4 miliardi di euro del Recovery fund destinati alla Polonia a causa delle irrisolte questioni sullo stato di diritto.
La scorsa settimana la stessa corte di giustizia ha accolto il ricorso della Commissione Ue contro la riforma della magistratura attuata dalla Polonia nel 2019. Pochi giorni dopo è arrivata l’apertura di una procedura di infrazione per una legge recentemente approvata, che potrebbe mettere in fuorigioco il leader dell’opposizione Donald Tusk.
In questo clima da lunghi coltelli, ormai perdurante da anni, si inserisce anche la questione energetica. Qualche anno fa la Polonia è stato l’ultimo Paese europeo ad approvare il piano per la completa decarbonizzazione entro il 2050. Tuttavia dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, Varsavia ha dovuto rivedere i piani della transizione energetica. Se da una parte si è fatta urgente la necessità di rendersi completamente indipendenti dai combustibili fossili russi, dall’altra il governo polacco ha voluto porre l’accento sulla necessità di farlo con i propri tempi.
I pilastri del piano energetico per il 2040 prevedono di andare avanti spediti con gli investimenti sul nucleare: due sono le centrali tradizionali in fase di progettazione, la prima dovrebbe sorgere sul mar Baltico entro il 2033. A queste si accompagnerà un certo numero di minireattori modulari SMR dalla potenza massima di trecento megawatt, sparsi un po’ in tutto il Paese.
L’altro elemento fondamentale del mix energetico sono le rinnovabili. Nei prossimi vent’anni Varsavia prevede di raddoppiare la capacità potenziale sull’eolico dagli odierni otto gigawatt ai venti gigawatt del 2040. Per quanto riguarda il fotovoltaico si punta molto sulla sull’elettricità prodotta dai pannelli solari domestici. In questo caso la produzione è già raddoppiata in pochi anni da 2,76 TWh a 5,77 TWh.
Per poter raggiungere questi obiettivi serve però tempo, come predicato più volte dal governo di Diritto e Giustizia. Per una transizione “giusta”, le autorità di Varsavia ritengono imprescindibile continuare a puntare sul carbone. «In Polonia il settanta per cento dell’energia è ancora prodotto dal carbone, e così rimarrà ancora per molto tempo, che piaccia o no. Questa è la realtà», ha dichiarato un mese fa il vicepremier e ministro ai Beni statali, Jacek Sasin. «I grandi investimenti richiedono soldi e tempo e finché questi investimenti non saranno completati il carbone sarà la base del settore energetico polacco», ha aggiunto.
Anche per questo motivo la Polonia ha salutato come un successo il voto sulla direttiva dell’Unione europea sul metano del 10 maggio, in cui rispetto alle proposte iniziali della Commissione sono stati accolti gli emendamenti presentati dalle eurodeputate polacche Izabela Kloc e Anna Zalewska, che hanno permesso di alzare di dieci volte i limiti di emissione dalle miniere di carbone (da 0,5 a cinque tonnellate di metano per mille tonnellate di carbone estratto).
Vista elezioni
Nelle settimane precedenti si erano tenute a Varsavia diverse manifestazioni di protesta portate avanti dai sindacati dei minatori, una categoria molto importante per Diritto e Giustizia in vista delle prossime elezioni autunnali. Si capisce quindi l’importanza di questo tema nell’economia politica e la necessità di mantenere la barra a dritta nei confronti dell’Europa. Rientra in una narrazione di lungo corso, che vede la Polonia scontrarsi contro le cosiddette “élite”, in difesa dei più deboli.
Sempre in quest’ottica deve essere considerata la vicenda che in questi giorni sta riguardando la miniera di lignite di Turów, la più importante del Paese. Un tribunale amministrativo di Varsavia ha accolto il ricorso di alcune associazioni ambientaliste contro la proroga delle concessioni alla miniera di continuare l’attività estrattiva dopo il 2026. La decisione ha provocato un’alzata di scudi unanime da parte del governo. Il primo ministro Morawiecki ha parlato di sentenza che vuole favorire gli interessi stranieri a scapito di quelli polacchi.
L’impianto di Turów era salito agli onori delle cronache un paio di anni fa quando la Repubblica Ceca si era rivolta alla Corte di giustizia europea denunciando l’inquinamento acustico e atmosferico prodotto dall’impianto, che inoltre causava un’infiltrazione delle falde acquifere. La miniera si trova infatti in un lembo di terra nel sudovest del Paese incastonato tra Repubblica e Germania. Alla fine il contenzioso con Praga è stato risolto con un accordo pecuniario, ma nel frattempo la Corte del Lussemburgo aveva accolto il ricorso e condannato la Polonia a pagare una multa di cinquecentomila euro per ogni giorno di attività.
Va da sé che lo spettro di un blocco, causato per di più da un organo amministrativo interno, suoni quasi come una beffa. Secondo le stime del governo, l’impianto di Turow produce tra il sei e l’otto per cento dell’energia elettrica del Paese. Anche in questo caso, risolvere il problema prima delle elezioni risulta essere di cruciale importanza.