La prima micro-riforma garantista della giustizia – sino ad oggi solo grida manzoniane, reati universali e di nuovo conio, stop – firmata Nordio-Sisto sarà pure dedicata a Silvio Berlusconi, ma il Cavaliere, sia detto con il dovuto rispetto, l’avrebbe rispedita al mittente.
Non che l’uomo fosse uno spregiudicato riformatore: come di recente ha ricordato l’ex presidente delle camere penali italiane Valerio Spigarelli, si guardò bene dall’attivare ogni serio e radicale cambiamento dell’ordinamento giudiziario, procedendo per rattoppi e aggiustamenti delle leggi (falso in bilancio, prescrizione, legittimo sospetto, etc.) a uso proprio, senza un vero disegno complessivo.
Perfino di fronte alla possibilità di appoggiare un referendum dall’esito probabilmente favorevole sulla separazione delle carriere – promessa da Nordio e mai varata – il fondatore del centrodestra italiano, autoproclamatosi «garantista», preferì farlo fallire invitando gli elettori ad andare al mare. Per non parlare dell’intenzionale naufragio della bicamerale, tutte circostanze che gli guadagnarono il titolo di “toga rossa” onoraria da parte dei penalisti italiani.
Il fatto era che Berlusconi, nella sua veste politica, il radicalismo lo riservava alle campagne elettorali, ma poi giunto al governo cercava solo la trattativa sottobanco con la magistratura associata.
Ora, il disegno di legge che si appresta a un lungo cammino, denso di incognite (e la scelta dell’iter parlamentare più lungo dice tutto sulla convinzione e determinazione del governo sulla materia). Certamente si muove nel solco berlusconiano, quanto meno rispetto al piatto forte dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio, e per il resto si limita a fare il solletico alla magistratura.
Per l’abuso d’ufficio il refrain sembra chiaro: «Se il controllore indica problemi, il problema da eliminare è il controllore». La strategia è del tutto analoga a quella adottata dal secondo governo Berlusconi in tema di falso in bilancio. Come per il morente reato di abuso, la norma che punisce l’alterazione dei bilanci costituì durante l’epopea di Mani Pulite il cavallo di troia con cui la procura di Milano accertò l’esistenza di fondi neri destinati alla corruzione politica.
Analogamente, come candidamente ammesso dall’ex direttore dell’Anac Raffaele Cantone, l’illecito che punisce i favoritismi a titolo gratuito e le prepotenze dei pubblici amministratori, è spesso solo la spia di sotterranee concussioni e corruzioni, e ciò spiega l’anomalia dello spropositato numero di procedimenti aperti e il basso tasso di condanne. Se non si scopre un passaggio di denaro si archivia, perché è difficile provare – senza di esso – l’interesse personale.
Come gli imprenditori per il falso in bilancio, i sindaci patiscono i controlli asfissianti e il sospetto che essi celano, ma c’è da dire che – dopo il tentativo berlusconiano di rendere innocuo il reato contabile limitandone la perseguibilità ai casi più rilevanti in chiave contabile – esso è stato reintrodotto nella sua prima versione in quanto è apparso chiaro che la cancellazione del reato aumentasse i problemi anziché risolverli.
L’abolizione del reato di abuso d’ufficio si muove nel medesimo solco, ma c’è da dire ancora che ben difficilmente andrà in porto, nonostante la necessità di impiegare senza ostacoli i fondi del Pnrr la rendano necessaria agli occhi di Giorgia Meloni.
Come per altre questioni, il problema è ancora una volta l’Europa: stavolta si manifesta sotto forma della convenzione di Merida contro la corruzione, che festeggia addirittura il ventennale e della sua ratifica da parte della Camera risalente nientemeno che al 2009 (proprio durante l’ultimo governo Berlusconi che godeva della schiacciante maggioranza di cui diede prova nel proclamare Ruby nipote di Mubarak).
Leggendo il testo della ratifica si apprende che l’Italia ha assunto «l’obbligo di conferire carattere penale a una grande diversità di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali». Non ci crederete ma tra esse esplicitamente la convenzione di Merida ha inserito nell’art. 19 l’abuso del pubblico ufficiale, come bene ha spiegato Cristiano Cupelli, ordinario di Diritto penale all’Università Tor Vergata di Roma. Il che rende la strombazzata riforma a serio rischio di incostituzionalità visto che l’art. 117 della Carta impone l’osservanza dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia.
Sarà pure «un bel segnale culturale», come sostiene l’attuale presidente dell’Unione Camere Penali Giandomenico Caiazza, in sollecito soccorso del discusso ministro e del suo vice, ma il tutto sembra più l’ennesimo spot pubblicitario che una concreta possibilità di cambiamento.
La finalità propagandistica emerge invece nella sua pienezza negli altri provvedimenti che costituiscono l’ossatura del provvedimento.
Sono a serio rischio di incostituzionalità anche le proposte che riguardano il divieto impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pm e la nuova procedura di controllo sulle misure detentive in sede di indaginem che si vorrebbe affidata a un collegio di giudici e non a uno solo come avviene oggi.
A tacere dei problemi tecnici (di grazia, che fine farebbe il tribunale del riesame che già oggi in tempi brevi verifica la necessità e fondatezza dei provvedimenti restrittivi e che rischia di diventare un inutile duplicato?) vi è l’ingiustificata sperequazione che riserverebbe la procedura più garantita solo ad alcuni reati e non ai più gravi.
A farla breve: la presunzione di non colpevolezza, che è valore costituzionale, e che costituisce la ragione della maggior tutela che si vorrebbe introdurre, riguarda tutti gli imputati, anche i vari “mostri”, mafiosi, narcotrafficanti e così via, e non solo alcuni reati. Molto probabilmente la nuova normativa non supererebbe indenne il vaglio costituzionale.
Ovviamente sia Carlo Nordio che Francesco Paolo Sisto lo sanno benissimo, e pur animati, sono sicuro, dalla voglia di lanciare «un bel segnale culturale» sono impaniati dall’insanabile contraddizione di far parte di un governo reazionario e populista, costituzionalmente incapace di capire il garantismo se non come espediente per sottrarre il proprio ceto politico agli stringenti controlli di legalità, per cui la necessità di spendere i soldi del Pnrr va di pari passo con quella di garantire la copertura legale dei propri fidi amministratori. Intendiamoci, non che non sia magari opportuno allargare le maglie di un controllo spesso occhiuto e paralizzante come quello della magistratura, ma il concetto inaccettabile è che per Meloni e co. le garanzie si applicano solo agli amici, per tutti gli altri invece vale la versione giustizialista.
Restano invece lettera morta (guarda caso) la nuova normativa sulla giustizia riparativa e una seria riforma carceraria che costituisca un’alternativa alla vergognosa condizione detentiva di migliaia di detenuti cui vengono negati i diritti elementari. Qui nessun segnale di bel cambio culturale.
In conclusione, dovrà presto capire la premier cosa vuol fare con la corporazione delle toghe: se emulare i tremebondi predecessori limitandosi ai rattoppi arraffazzonati, o seguire l’esempio della signora Thatcher con le Trade Unions dei minatori. Lo scontro duro per le riforme vere come la separazione delle carriere, non quelle abborracciate e populiste.
Se invece continuerà sull’attuale rotta il governo finirà in rotta di collisione con l’Europa anche sul tema giustizia: bene che la sinistra lo sappia e ci ragioni, magari con gente che tra le sue fila capisca il diritto.
PS: Per ragioni di spazio rimandiamo le riflessioni sull’altro pasticcio delle intercettazioni, che merita un capitolo a parte.