Delitto e castigoL’invasione colonialista russa e l’incubo della guerra totale in Europa

Il conflitto in Ucraina ha riportato una brutalità in un’area geografica che si pensava fosse ormai preservata dalla violenza

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Quale spettro nella nostra memoria e nelle nostre esperienze politiche passate sta evocando l’attuale guerra della Russia contro l’Ucraina? Cosa fa rivivere questa guerra? Innanzitutto, lo shock causato dal confronto immediato con la brutalità, la violenza e l’aggressione nuda e cruda, per di più accompagnata da un discorso di sterminio pronunciato senza maschera né filtro. Non che la guerra di predazione, la guerra di conquista e l’aggressione imperialista fossero mai cessate nella realtà – ma l’Europa, l’Europa geografica, l’Europa profonda, se così si può dire, e non solo l’Europa istituzionale, l’Europa, quindi, come spirito, sembrava preservata da tutta la violenza insensata del mondo, degli altri, degli altri soggetti e degli altri spazi. Lo scandalo di questa rappresentazione, di questo egoismo ontologico, è stato messo a nudo in un colpo solo la mattina del 24 febbraio 2022.

Lo spettro di una guerra totale ora tormenta le nostre coscienze, con l’Ucraina. Guerra totale nel senso che è finalizzata alla completa conquista di un territorio, di un Paese sovrano, all’annientamento di un popolo, di una tradizione, di una lingua, alla cancellazione di una popolazione e di uno spazio considerati sub-russi, che mi sembra una caratteristica specifica di questo conflitto.

Sub-russo significa ovviamente sub-umano e, tanto per cominciare, questa è la base degli innumerevoli crimini perpetrati dall’esercito di occupazione sul territorio ucraino. Ma sub-russo significa anche avere una vocazione naturale a unirsi e fondersi con la superiore entità russa. Da qui l’incredibile buona coscienza mostrata dai propagandisti di Putin e, ovviamente, la loro completa cecità. L’annessione, secondo loro, era un processo naturale di metabolizzazione e non avrebbe comportato più problemi di una digestione un po’ più difficile del solito. Nulla a che vedere con lo sradicamento, l’estirpazione e la desolazione subiti dal popolo ucraino, che ha imparato da esperienze storiche ben precedenti, tra cui l’Holodomor.

Va sottolineato che la guerra russa contro l’Ucraina “sub-russa” è una situazione di tipo coloniale. I russi, per lungo tempo, fin dall’epoca zarista, e come altri, i tedeschi in particolare, hanno sempre lavorato per ritagliare nella carne dell’Europa un impero a loro misura presunta o sognata. Questo fenomeno di colonialismo intraeuropeo, di conquista sfrenata di un Lebensraum, è ampiamente sottovalutato e poco analizzato. Eppure, è stato estremamente letale e lo sta diventando di nuovo con la Russia di Putin, che intende costruire un nuovo impero alle porte dell’Occidente, proprio nel mezzo dell’Europa, a suon di ferro e sangue, saccheggio e morte. Boris Nadezhdin, un ex membro della Duma di Stato le cui opinioni hanno un certo seguito nella Russia di oggi, parla apertamente di metodi coloniali in relazione alla guerra condotta contro l’Ucraina.

Questa duplice ragione – colonia più gerarchia –  è sufficiente a spiegare perché l’aggressione e l’invasione russa costituiscono un punto di disgiunzione tra i due popoli ormai irreversibile. Per i russi la questione non è politica, nel senso fortemente arendtiano di apparire su un palcoscenico pubblico, condiviso e discusso; è quasi “etnica”, o etnico-culturale, ed evoca l’idea vaga ma diffusa di un ritorno a una proto-situazione naturale, antica, originaria, contro l’indebita politicizzazione artificiale operata dall’Occidente. Comprensibilmente, per gli ucraini la questione è eminentemente politica, radicata in conflitti storici e basata su scelte, prima fra tutte quella della democrazia: come tale, è una questione di sopravvivenza politica. La guerra ha esacerbato questa profonda e inconciliabile frattura.

Primo Levi spiegava che quando i deportati dicevano «la fame, la fatica, la paura e il dolore, l’inverno», dicevano qualcosa di molto diverso da quello che quelle stesse parole dicevano quando erano «libere, create da e per uomini liberi che vivono nelle loro case e provano gioia e dolore». Quando le parole di alcuni dicono qualcosa di diverso dalle parole di altri, quando la guerra è anche nelle parole, allora c’è qualcosa di insanabile, qualcosa che rende rigorosamente impossibile il negoziato promosso dalle anime belle. Non ci sarà pace duratura finché i russi non parleranno con «parole libere».

La metabolizzazione russa dell’Ucraina è il risultato di una gigantesca menzogna in cui gli stessi bugiardi sono intrappolati, costretti a convincersi della verità delle loro bugie. Questa è la funzione della propaganda di guerra, che utilizza le vecchie ricette della tirannia – negazione, occultamento, sostituzione di uno scenario inventato a un’atroce scena del crimine – per forzare la verità in una narrazione, per trasfigurarla romanzandola. Queste operazioni linguistiche, a volte rozze, a volte sofisticate, cercano di far scomparire la realtà e di sostituirla con le sue contraffazioni.

Per i “metabolizzati”, il prezzo di questa sostituzione e di questa spaventosa menzogna è la trasformazione dell’intera Ucraina in un “campo”. Ed è proprio un’esperienza di questo tipo, un campo di concentramento, che gli ucraini hanno vissuto nelle parti di territorio conquistate, occupate e annesse dall’esercito invasore. Appelli aperti allo sterminio, deportazione di bambini e adulti ucraini – scomparsi, inghiottiti, camere di tortura e uccisioni. Questa generica dimensione concentrazionaria, che segna la rappresentazione della guerra e della politica nella storia, accompagna ormai tutte le analisi oggettive – il più possibile assiologicamente sobrie – che siamo portati a stabilire.