Quand’ero piccina, il fratello di mio padre s’innamorò d’una vedova, la sposò, ne adottò i figli. Mi ritrovai con due cugini un po’ più grandi di me, che potevano fare tardi la sera quando io ancora no.
Un’estate in Grecia, io avevo quindici anni e mio cugino diciannove, era appena tornato dall’aver fatto il militare nei parà, ogni tanto si buttava per terra annunciando che avrebbe fatto cento flessioni, Full Metal Jacket al bar sulla spiaggia.
A un certo punto sparì per tre giorni, aveva conosciuto una ed era andato a scopare senza avvisare nessuno (mica c’erano i cellulari); me ne ricordo solo perché, nella stessa vacanza, la vacanza in cui il maschio poteva star fuori tre giorni senza che nessuno si turbasse, mio zio una sera disse alla figlia che doveva tornare a mezzanotte «perché non sta bene che una ragazza faccia troppo tardi».
Fu la prima volta che pensai «che antiquato, che buffo», che era quel che nel Novecento pensavamo di molte delle cose di cui adesso diremmo disinvoltamente «fascista»: mio zio era nato negli anni Quaranta, certo che pensava che le femmine dovessero portarsi pubblicamente con più compostezza dei maschi.
Qualche anno dopo, forse rassegnato al fatto d’aver generato un’egoista che tutta la vita sarebbe stata troppo concentrata a occuparsi di sé per fare figli, o più plausibilmente così nato negli anni Quaranta da non concepire che i figli prendessero il cognome materno, mio padre sospirò: con te finisce il cognome Soncini.
Dissi che no, c’era mio cugino, lui magari i figli li faceva e si sarebbero chiamati Soncini. Mio padre mi guardò come una che non sa che dal rubinetto rosso l’acqua esce già calda e disse: ma non avranno il nostro sangue. Pensai la solita cosa: che antiquato, che buffo.
Mi è tornato in mente quando, all’ultima puntata di “Succession”, Roman Roy dice al fratello Kendall che il padre i suoi figli adottati non li ha mai considerati veri nipoti. Su Twitter è partita una polemica sul razzismo di quella frase, giacché la figlia di Kendall è indiana, e a me è venuto da ridere: io uno più bianco e di destra di quello che si buttava per terra a far le flessioni non l’ho mai visto, eppure mica bastava per passare la prova del sangue.
«Non mi viene in mente niente di più fascista del sangue. Il sangue che stabilisce parentele, gerarchie, eredità, tradizioni» ha scritto su Repubblica Chiara Valerio in uno strano articolo. Strano perché parlava delle coppie di lesbiche che a Padova erano registrate come madri di bambini che ora si ritrovano con una madre di meno. Strano perché sceglieva proprio quei casi lì per inveire contro il primato della biologia.
Ma quelli di madri lesbiche sono perlopiù casi in cui le madri sono entrambe madri biologiche: una ci ha messo l’ovulo, l’altra la gestazione. L’anagrafe registra solo una come madre biologica perché il modo in cui la società ha organizzato le famiglie risale a prima che un’operazione del genere fosse possibile; ma è innegabile che, nascendo tutti noi da un ovulo, quella che ci mette l’ovulo sia la tua madre biologica pure se non ti ha partorito; è innegabile che tu abbia il suo sangue.
Non voglio dire che mio padre non fosse fascista, mica pratico il revisionismo autobiografico per il quale gli italiani son tutti figli di partigiani e nessuno di evasori fiscali. Dico però che io, il sospetto che la fissazione per il sangue vigesse anche a sinistra, l’ho iniziato ad avere ormai un secolo fa, le prime volte in cui ho visto amiche assai democratiche e con problemi all’apparato riproduttivo non provare neanche ad adottare, perché il figlio doveva essere comunque loro, e con loro s’intende: col loro sangue. E pazienza se questo comportava una gamma di problemi che andava dalle cure per la sterilità al rischio di morire di parto, come nei film in costume.
Di solito a insistere per il sangue del mio sangue e le piume delle mie piume erano i mariti, giacché la trasmissione del sangue è una fissazione maschile stratificata nei secoli in cui la madre era certa e il padre no. Ma comunque le mie amiche li assecondavano molto più di buon grado di quanto avrebbero fatto, chessò, se quelli avessero richiesto che la moglie restasse a casa invece d’avere una carriera.
Che cos’è la maternità surrogata (già utero in affitto, poi derubricata a definizione offensiva, e ora anche maternità surrogata viene considerato scortese, per ora va bene gestazione per altri ma aggiorniamoci presto sulle sfumature lessicali) se non un modo di assecondare la fissazione della trasmissione del sangue?
Certo che l’adozione in Italia è assurdamente complicata, e non prevista se sei un uomo senza una moglie o una donna senza un marito, ma non se ne discute quanto della surrogata, perché con l’adozione il figlio non ha il tuo sangue, e negli anfratti più impresentabili della nostra formazione risuona un: se lo adotto poi non ha il mio sangue.
Mi dispiace molto vivere in un’epoca incapace di considerare il dubbio in modo diverso da un gesto d’ostilità, e non poter quindi discutere delle coppie di uomini gay che vanno all’estero a farsi fare un figlio da quelle che, non potendole più chiamare madri surrogate, potremmo forse definire collaboratrici familiari. Se se ne potesse parlare senza venire accusate di qualcosafobia, non m’interesserebbe tanto il ruolo delle gestanti e il potenziale di sfruttamento (sono perché ognuna faccia ciò che le pare, anche le cose più degradanti quali prendere un cane, lavorare nelle pubbliche relazioni, andare a correre: figuriamoci se non sono per la libertà di prestare il proprio utero a scopi riproduttivi).
Mi piacerebbe che qualcuno con gli strumenti della psicanalisi studiasse il fatto che gli uomini gay, che perlopiù (è un cliché, ma i cliché diventano tali perché hanno fondamento nella realtà) hanno rapporti strettissimi e di dichiarato grande amore con le madri, poi appena la società gliel’ha permesso si sono adoperati a mettere al mondo figli programmaticamente senza madri.
Chissà se c’entra il fatto che quel grande amore in realtà non è tale, o se invece sì, di mamma ce n’è una sola, come cucina mia mamma nessuna, però scusa tanto, mio figlio deve avere il mio sangue.