La fine dell’età adultaMagliettecollescritte, presentismo e altri tic dei cinquantenni nel nuovo libro di Guia Soncini

Un estratto da “Questi sono i 50” (Marsilio), il saggio scritto dalla columnist de Linkiesta e da oggi in libreria: «Il vero dualismo non è tra invecchiare e morire: è tra crescere e no»

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«Di chi?» è la più assurda e frequente domanda che mi sia sentita fare da quando ho iniziato a dire ai miei conoscenti che stavo scrivendo un libro sui cinquant’anni. Una mattina, mentre finivo di scrivere questo libro, un ministro particolarmente irriso dalle persone che frequento è comparso su Instagram con in mano una torta di compleanno, e indosso una maglietta con su stampata una scritta. Il tragico rapporto degli adulti di questo secolo con le magliettecollescritte è un tema al quale avevo fatto cenno tra le pagine, ma c’era un’aggravante. La scritta diceva: «La vita comincia a cinquanta». Ho pensato ai manoscritti distrutti nelle opere di finzione: quello di Jo, bruciato in Piccole donne; quello di Kenneth Branagh, buttato nel fiume in Celebrity. Poi, con cinquant’anni d’allenamento a trovare scuse per me, ho deciso di catalogare il ministro come effetto collaterale o luce riflessa. Simone de Beauvoir, che ha scritto di sé persino più di quanto io abbia fatto di me, mi aveva lasciato la tavola apparecchiata con una splendida scusa: «È impossibile far luce sulla propria vita senza illuminare in qualche punto quella degli altri». Quindi, non era necessario agitarsi e cestinare queste pagine: erano i cinquant’anni miei, mica i suoi.

Da piccola mi diedero da leggere Cuore. Lo conoscete: quello di Franti infame che sorride e di Garrone buono, quel libro moralista ambientato in una scuola elementare a fine Ottocento. Quando lo diedero da leggere a me era uscito da poco più di novant’anni; quando l’aveva letto mio padre da una sessantina; neppure quando l’aveva letto mio nonno era una novità: doveva essere uscito da trent’anni o giù di lì. Non posso dire che Cuore sia stato una mia passione infantile quanto lo furono Violetta la timida o Pattini d’argento, ma neppure mi sembrava assurdo che me lo proponessero. Nei novant’anni trascorsi da quando Edmondo De Amicis aveva scritto Cuore a quand’ero alle elementari io, il mondo era cambiato assai meno di quanto si sia scombussolato negli ultimi trenta. Oggi, se dai a un ragazzino un libro di novant’anni fa, non capisce neppure la lingua in cui è scritto. Il ragazzino di oggi, che feticizza il presente, guarda come alieni (in neolingua: boomer) i vegliardi che feticizzano il passato. Dateci un film coi telefoni a disco e il Televideo come massimo orizzonte della modernità, e noialtri vegliardi lo guarderemo anche se non è particolarmente avvincente. La nostalgia è l’unica invenzione di cui possano fregiarsi quelli della mia età, e l’unica eredità che lasceremo ai nostri pargoli (assieme al crollo del sistema pensionistico). Quelli della mia età erano negli anni di formazione quando uscì Ritorno al futuro, e siamo sempre rimasti lì: in visita al passato con gli occhioni sgranati. Non ci siamo neanche cambiati d’abito; siamo vestiti come liceali anche mentre ci tingiamo i capelli bianchi, e per scongiurare il terrore di non essere più i ragazzini di casa ci adeguiamo a uno dei grandi mali del secolo: il presentismo. Il presentismo è quel fenomeno per cui una canzone di due anni fa è considerata vecchia, un episodio di cronaca dell’altroieri è considerato per sempre, e quando la più importante rivista culturale del mondo decide di occuparsi dei classici della commedia romantica il film più antico che cita è del 1987. Qualche mese fa una cantante colombiana ha inciso una canzone, di cui tra due anni non ci ricorderemo, in cui insultava l’ex che l’aveva tradita, paragonando sé stessa a una Ferrari abbandonata in favore d’una Twingo. Qualche settimana dopo un politico italiano, in un comizio, ha riutilizzato lo schema della Ferrari e della Twingo per prendersela col suo ex partito. Il pubblico ha applaudito felice, perché ormai ha la memoria storica d’un seimesenne, e riconoscere una citazione lo fa sentire intelligente, e il suo orizzonte culturale di citazioni riconoscibili non è ampio: già se vai sette mesi indietro non coglie. Guardavo la citazione d’attualità e pensavo che difficilmente il discorso verrà raccolto e storicizzato come accadeva a quelli di Kennedy, o di De Gaulle, o di gente i cui riferimenti non scadevano più rapidamente del formaggio. Ma Charles de Gaulle era più o meno coetaneo di Cuore, e John Kennedy era più o meno coetaneo di mio nonno: se fossero miei coetanei, farebbero video in maglietta per dirci quant’erano meglio i politici che andavano in spiaggia in giacca e cravatta.

Trent’anni fa mio padre aveva più o meno l’età che ho io ora, e dava del lei a sua suocera. Ogni tanto mi chiedo se esista un mio coetaneo che dia del lei ai suoceri. Dei più giovani neanche me lo domando, mi pare evidente che nelle scuole abbiano smesso d’insegnare la terza persona. Lo so, sembro una che borbotta invocando le buone maniere dei suoi tempi. Mi pare però che la questione del lei non riguardi il galateo, ma il Grande Indifferenziato. Non sappiamo più tenere registri diversi, variare la confidenza tra il compagno di classe cui dare del tu e la maestra cui dare del lei, distinguere: tra le polemiche da un quarto d’ora e le ragioni per cui invece bisognerebbe dar l’assalto alla Bastiglia; tra i riferimenti di cultura generale che andrebbero pretesi da un adulto e le cose che sai solo perché ti sono passate davanti cinque secondi fa ma se le dimentichi è solo un vantaggio per lo spazio nei tuoi neuroni utilizzabile per roba meno inutile; tra i traumi permanenti e le sbucciature al ginocchio; tra le cose che importano quando sei piccolo e quelle che importano da grande; tra genitori e figli; tra diritti e capricci; tra letteratura e disegnini; tra Leonard Cohen e chiunque sia il primo su Spotify questa settimana.

Di recente un’amica mi ha girato un messaggio vocale della figlia quindicenne. C’entrava un qualche giudizio cinematografico mio e di sua madre, con cui la piccina non concordava. Ella s’illudeva d’ucciderci con due parole: siete, diceva in tono che s’intuiva percepisse definitivo, «adulti noiosissimi». Gioia della zia, sapessi che lungo e accidentato cammino per arrivarci, sapessi che mèta agognata. Una cosa che non sai a quindici anni ma sai molto bene a cinquanta è che essere noiosi è un privilegio, essere adulti è un traguardo, non doversi affannare ad avere gusti che somiglino a quelli dei quindicenni è un lusso. Ce ne sono molte altre, di cose che non t’immagini ora e di cui ti renderai conto tra qualche decennio. Te le ho sparse per l’intero libro, quando sarai grande abbastanza da leggere più delle dieci righe che la mamma fotografa e mette su Instagram. Ma te ne voglio dire subito una che non sei pronta a sentire, con cui non riuscirai a immaginare di concordare neanche tra un secolo, che ti farà dire che non capisco niente, che ti farà giurare che tu mai mai mai sarai noiosa e ottusa come me: Piccole donne è bruttissimo.

Il vero dualismo non è tra invecchiare e morire: è tra crescere e no. Di recente l’Atlantic ha pubblicato un saggio breve sull’età che sentiamo di avere. Tutte le persone intervistate dall’autrice si sentono più giovani di quanto sono, anche con articolate motivazioni. C’è il docente di diritto costituzionale, cinquantatreenne, che se ne sente trentacinque e ricorda che la teologia medievale si domandava che età si avesse in paradiso, e perlopiù si rispondeva trentatré «perché è l’età della crocifissione di Gesù, ma credo anche perché è il picco della combinazione tra vigore e maturità». Se non avete la pazienza di leggere l’intero libro ve lo dico subito: tra i trenta e i trentacinque si colloca, a mio incontrovertibile parere, il picco della combinazione tra stupidità umana e convinzione d’essere ormai adulti compiuti. Una cosa che sai a cinquant’anni ma non sapevi a trenta è quanta vita dovevi ancora vivere, a trenta, prima di diventare una persona frequentabile.

Il saggio proseguiva sostenendo che i cinquantenni parlano coi trentenni convinti d’esserne coetanei, mentre i trentenni li considerano molto più vecchi. Anche questa mi sembra una realtà parallela: io cerco di non parlare con trentenni, ma se proprio devo lo faccio con la stessa semplificazione di linguaggio e condiscendenza di tono che adopero coi figli adolescenti degli amici. Quando, cercando qualcosa in una vita di email archiviate, incappo in conversazioni della me trentenne, me ne vergogno come di quasi nient’altro, e penso che se la incontrassi oggi, quella cretina, fingerei di non conoscerla.

Quattro settimane dopo il mio ventiquattresimo compleanno, uscì un disco di Guccini che conteneva due invettive, sulle quali mi concentrai com’era congruo fare a quell’età di certezze e malumori (una delle due la ritroverete alla fine – o subito, se siete gente che quando legge i gialli va innanzitutto a sbirciare l’assassino in fondo). La canzone che trascurai per i successivi ventiquattro anni ha recuperato il tempo perduto diventando poi la canzone che ho più ascoltato da adulta, e quella alla quale ho pensato per tutto il tempo in cui ho scritto questo libro. S’intitola Lettera; è il monologo di uno che, sdraiato sull’erba, fantastica sul passato, «ma l’età all’improvviso disperde quel che credevo e non sono stato». È, credo, la versione musicale di quella notazione che butta lì Simone de Beauvoir nell’Età forte, scrivendo cinquantaduenne della sé stessa ventunenne «Ci sbagliavamo pressoché su tutto».

Guccini aveva cinquantasei anni, e si faceva le domande che ci facciamo più o meno tutti – io, lui, Proust, la de Beauvoir, Carlo Conti – a quell’età alla quale circumnavighiamo più o meno compiaciuti il passato cercando di riconoscerne i confini e le paludi: «Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, l’arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?».

Una cosa che ti citano tutti, quando dici che vuoi scrivere di quel che hai imparato invecchiando, di quel che ti hanno regalato gli anni (oltre alla Grande Paralisi del Metabolismo, alla convinzione che ogni volta che dormi su un braccio e non lo senti più sia infarto, all’incapacità di ricordare perché ti sei alzata e sei venuta in questa stanza ricordando invece benissimo le canzonette che ascoltavi in seconda media), delle nuove consapevolezze e dei lussi intellettuali che un tempo non avresti potuto concederti, una cosa che ti citano tutti è La grande bellezza, un film che ha visto anche chi non l’ha visto. Quella frase di Jep Gambardella l’ha sentita anche chi non l’ha sentita: «La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».

Ma sessantacinque anni, per me che ne ho cinquanta e che non facevo quel che non mi andava di fare neanche a venticinque, è un tempo inaccettabilmente lontano. Potrei sostituirlo col solito Guccini: «Come vedi tutto è usuale, solo che il tempo stringe la borsa, e c’è il sospetto che sia triviale l’affanno e l’ansimo dopo una corsa». Oppure arrendermi al fatto che ad assomigliarmi di più non è un libro, non è un film, non è una canzone. È una frase letta in un’intervista. La disse Valerio Mastandrea, la lessi il giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, e ha l’efficacia del romanesco – una lingua imbattibile nella spiccezza al limite della maleducazione – nel dire la disposizione d’animo di alcuni di noi verso ciò che magari a trent’anni avremmo finto di gradire perché non sapevamo chi eravamo, o non sapevamo come dire di no, o non sapevamo che nessun rifiuto è grave e nessuna occasione è davvero perduta. Fa così: «A me me deve anna’, e non me va quasi mai».

Da “Questi sono i 50. La fine dell’età adulta” di Guia Soncini, Marsilio, 192 pagine, 17,10 euro