Virginia Overton nasce nel 1971 a Nashville, nel Tennessee. Nonostante l’interesse per l’arte sviluppato fin dalla giovane età, la sua carriera in questo campo inizierà relativamente tardi. Già durante l’infanzia il padre le trasmette l’amore per la scultura, ma questa diventerà una vera e propria vocazione solo dopo anni di ricerche, cambi di percorso e sperimentazioni lavorative che la vedranno impegnata in ambiti diversi. Dopo vari peregrinaggi, Overton trova nel lavoro artistico la modalità perfetta attraverso cui conciliare il dovere, gli interessi personali e l’urgenza di fornire un contributo alla società. Dopo aver conseguito una laurea triennale e magistrale in Belle arti presso l’università di Memphis, l’artista si sposta a New York. A Brooklyn conoscerà vari artisti con cui collaborerà negli anni seguenti.
Le opere della scultrice sono prettamente legate a un’etica del risparmio e puntano a esaltare la fisicità e la concretezza dei materiali scelti e utilizzati per le sue installazioni. Attenta al riciclo, alla ricontestualizzazione degli oggetti e al loro riadattamento, Overton predilige quindi l’uso di materiali riciclati e già pronti, spesso recuperati dai detriti della vita quotidiana delle metropoli. L’artista, infatti, non è interessata alla bellezza estetica fine a sé stessa, ma piuttosto alla ricchezza e alla densità storica dei medium utilizzati nelle sue opere, di cui esalta la potenza delle qualità sensoriali ed espressive. Gli scarti della vita urbana diventano così narratori e testimoni del rapporto simbiotico tra l’oggetto e l’ambiente geografico in cui questo è inserito.
Nel suo lavoro, l’artista esplora la natura e le qualità di materiali che comunemente appartengono al mondo del lavoro edile o dell’agricoltura, e ne esalta la concretezza, restituendo allo spettatore l’immagine di una fisicità pragmatica, ma elegante. La peculiarità delle sue installazioni riguarda proprio la dimensione fisica, a cui lo spettatore e la spettatrice vengono richiamati, vivendo lo spazio occupato dalle strutture. Queste infatti possono essere toccate, attraversate e osservate da punti di vista e prospettive sempre diverse. Un’ode all’arte pubblica, al suo valore simbolico e collettivo, che rifugge il concetto di autoreferenzialità, proponendo al suo posto un’idea di contaminazione e di apertura verso l’esterno.
Nell’opera scultorea Tulip, infatti, la scultrice mette in dialogo strutture preesistenti con il paesaggio della Maremma, proponendo una riflessione sulla sinergia tra territorio e comunità, entrambi protagonisti dell’installazione. Tre segmenti verticali in calcestruzzo alti sei metri che si stagliano verso il cielo, disposti “schiena contro schiena” e intervallati da piccole finestre in vetro rosa, conversano con l’architettura della Polveriera Guzman di Orbetello, edificio costruito nel 1692 in epoca spagnola dall’architetto fiammingo Ferdinand De Grunembergh. Il tutto avvolto dall’ambiente lacustre. I materiali utilizzati per l’installazione sono ricavati da stampi preesistenti, tipicamente utilizzati per la costruzione di grandi gallerie.
Tulip ha aperto la nuova edizione del festival Hypermaremma, realizzato in collaborazione con Terraforma e in partnership con K-Way, che si impegna a valorizzare il territorio maremmano attraverso l’arte. Tra gli obiettivi c’è anche quello di risanare il rapporto spesso conflittuale tra l’espressione artistica delle nuove generazioni e un territorio dalla bellezza eterna, caratterizzato dai tempi dilatati e dal romanticismo della sua vita lenta. L’associazione promuove un turismo culturale sostenibile, capace di organizzare e supportare eventi artistici e musicali nel rispetto del paesaggio e della sua storia, ma senza vincoli economici, né temporali. L’idea, infatti è che il territorio diventi un museo a cielo aperto, senza biglietti d’accesso, né orari d’apertura.