Chissà se nel Paese della Costituzione più bella del mondo, la Costituzione “antifascista”, la Costituzione “nata dalla resistenza”, si riconoscerà mai che proprio uno dei motivi di presunta nobiltà e civilizzazione di quell’ordinamento ripete la retorica e la pratica di quello che l’ha preceduto. Non che sia un argomento inedito: Leonardo Sciascia e altri già ne scrissero, ma ancora quando non era compiutamente formulato il profilo aguzzino dell’antimafia democratica, ancora quando esso non ripeteva in modo quasi perfetto i tratti della maschera antenata, l’antimafia fascista.
La malversazione legislativo-giudiziaria sui reati associativi era già in corso e aveva dato i suoi frutti malati da tempo, anche prima delle architetture di fine secolo sulle aggravanti mafiose, ma solo dopo, solo più recentemente è venuta squadernandosi la somma impressionante di segni identitari che accomuna le due antimafie, quella repubblicana e quella fascista.
Le deplorazioni mussoliniane per la “poetica” mafiosa, così come le ambizioni di estirpazione sociale del fenomeno tramite l’inoculazione delle virtù del regime, si sarebbero trasfigurate nella demagogia dei convegni e dei filmetti democratici sulla “cultura della legalità”, per intendersi quella che indugia nello scrutinio della mafiosità della testata al giornalista e conduce infine alla celebrazione dei processi-bufala, come Mafia Capitale.
Ma sarebbe stata ben più vasta e reiterata la riprova di quella continuità culturale: la prescrizione di un farmaco anti-tumorale e l’indicazione di un “percorso terapeutico” rivoltate nel concorso esterno; le dissertazioni psico-criminologiche sui sentimenti della donna legata al boss, la renitente al dovere della sconfessione impassibile alla preminenza dei valori democratici; l’incolpazione su base onomastica e territoriale che si sviluppa nella requisitoria contro “l’assordante silenzio dell’intera comunità” che proteggeva il padrino; le conferenze stampa ai margini dei rastrellamenti giudiziari per attuare la rivoluzione che smonta come un giocattolo la società corrotta, e dunque le braccia allargate davanti all’inevitabile fisiologia delle carcerazioni improvvide.
Non è casuale il fatto che tra le ingiustizie imputate al fascismo durante il corso repubblicano manchino le politiche antimafia del Ventennio. Non è casuale che tra le vittime del fascismo evocate dalla retorica democratica manchino i caprai e i braccianti torturati dal Prefetto di Ferro per «fare terra bruciata» intorno al crimine organizzato: troppo simili, quelle vicende, alla storia delle carceri finalmente destituite della sontuosità da grand hotel e convertite nelle liberali austerità con cui lo Stato resiste alla mafia precludendo al detenuto il lusso di vedere il figlio di quattro anni più di un’ora al mese, e concedendogli minuti d’aria in spazi che l’animalista medio denuncerebbe come tortura se si trattasse di un verro o di una vacca anziché di un essere umano.