Forever Jung Il Gattopardo, Il danno, Attrazione fatale e le idee finite nel 1987

È l’era dei remake senza senso, probabilmente perché nessuno ha più intuizioni interessanti da tempo, quindi non stupiamoci se i giornali scrivono articoli sovreccitati su un film-evento come Barbie

AP/Lapresse

«Le idee sono finite nell’87». Me l’ha detto, sbuffando, una persona che fa i giornali, mentre io come mio solito borbottavo che basta, non se ne può più di interviste in cui gli intervistati non dicono niente, capisco il bisogno di riempire le pagine ma insomma ci si può anche far venire un’idea.

È invero un mistero che qualcuno di quelli che fanno i giornali mi parli ancora, considerata la sicumera con cui spiego loro ogni giorno come dovrebbero fare il loro lavoro, e mi aspettavo che in quel caso la risposta fosse una parafrasi del Tognazzi che diceva «La rivoluzione non la fa chi la deve fare, perché dovrebbe farla il cinema?» (“La terrazza”, che se non l’avete visto cosa diavolo perdete tempo con me).

Le idee non se le fa venire chi è pagato per farlo, perché dovrebbero farsele venire i giornali? Non se le fanno venire gli sceneggiatori, per dire: la produzione italiana di cui più si parla in questo momento è un rifacimento del “Gattopardo” (le idee sono finite nel 1963).

Che poi io capisco tutte le ragioni della riproposizione di idee vecchie: i giovani che non concepiscono di vedere una cosa che stia su Netflix da più di una settimana e quindi se vuoi che vedano Visconti devi ridarglielo fatto non da Visconti, fatto peggio, ma nuovo; i capolavori che non sono infiniti e da quelli che ci sono qualcosa è prima o poi già stato tratto e a te non resta che rifarlo; la speranza che il rifacimento sia trasversale alle fasce di pubblico: le mamme guardano sospirando «era meglio quello dei tempi miei», le figlie guardano scambiandosi foto della giovane Cassel in chat con le amiche – se non ci fosse una loro coetanea che possono seguire sui social, mica guarderebbero.

Il mistero semmai è Deva Cassel, la figlia di Vincent Cassel e Monica Bellucci, che per smarcarsi dall’osservazione che le tocca per forza – sì, però era meglio la madre – si va a infilare in un’altra gara persa: sì, però era meglio la Cardinale. Il mistero è Tom Shankland, così autorevole e prestigioso e noto come regista che l’ho dovuto cercare su Google, che pensa bene di immolarsi ai confronti con Luchino Visconti, quel boomer.

Tuttavia, poiché le idee sono finite non so esattamente in che anno ma da un bel pezzo, ormai va così: che o è “Barbie” o sono rifacimenti. O è il ricatto del film-evento (in un mondo che usa «evento» anche per l’inaugurazione d’una profumeria) che se non lo vedi sei fuori dallo spirito del tempo e dalla conversazione collettiva, o è il rimasticamento di roba che abbiamo già visto, che ha il sapore di quando rifecero la Fiesta ma senza liquore.

Su Prime c’è “Da grandi”, remake del film con Pozzetto (dell’87, appunto). Su Netflix c’è “Ossessione”, remake del “Danno”: al posto di Louis Malle c’è gente qualunque, al posto di Jeremy Irons uno che non ha l’aria di smuovere gli ormoni delle ventenni come accadeva a noialtre nel ’92. Ma la vera lapide delle idee finite nell’87 è su Paramount. Hanno rifatto “Attrazione fatale”. E io non so da dove cominciare a descrivervelo, dopo avere avuto la perversione di guardarlo tutto (otto ore in cui avrei potuto imparare il pizzo a tombolo).

Proprio come chi non ha mai visto “Via col vento” (sì, ne esistono) sa che è un film in cui lei a un certo punto si fa un vestito con le tende, chi non ha mai visto “Attrazione fatale” sa che è un film in cui quella con cui lui va a letto gli rovina la vita e mette a bollire il coniglietto che era animale domestico della bambina.

Mi scuso con coloro che sono affezionati alla categoria culturale dello spoiler, ma mi urge dire questa cosa perché è francamente inaccettabile: nel rifacimento, il coniglio non muore. Se volete la mia interpretazione, il coniglio se l’erano proprio dimenticato. Saranno giovani, non avranno vissuto gli anni in cui la bollitrice di conigli era una figura minacciosa temutissima da tutti gli uomini infedeli ma tremebondi.

Fatto sta che il coniglio sta lì, come un appiccichino tardivo, animale domestico d’una vicina di casa dell’amante pazza, si vede un paio di volte sulla soglia, tu pensi ora sbrocca e lo uccide, macché, è una suggestione, tipo il cappottino rosso in “Schindler’s List”.

Come si estende un film di un’ora e mezza a otto puntate di serie? Allungando il brodo. Cominciano da lui che esce di galera dopo quindici anni, era dentro per aver ucciso quella che non so più come chiamare non potendola chiamare la bollitrice di conigli. Ed è così che ti (mi) fregano: ma quindi non la ammazza la moglie come nel film? Si è preso la colpa lui? Vuoi vedere com’è andata, e quindi ti metti a guardare questo incidente stradale lunghissimo, diviso tra oggi e allora (sono tutti identici, l’unica da cui capisci quando si tratta di flashback è Amanda Peet, che fa la moglie, perché nelle scene del 2008 ha la frangetta).

Per allungare il brodo ti tocca scendere nel dettaglio della pazzia della bollitrice di conigli, addirittura devi sapere dei suoi genitori, ma soprattutto devi dare alla ventenne da piattaforma (quella che guarda mentre smessaggia) una coetanea in cui rispecchiarsi. E quindi eccola, la vera protagonista che ha rimpiazzato il coniglio: la figlia.

La bambina il cui padre andava in giro a scopare con delle psicopatiche è diventata una ventenne la quale, che il dio del didascalismo ci protegga tutti, studia da psicanalista.

E quindi in due scene su tre ascolta nelle cuffiette (è una ventenne di questo secolo: mica leggono) delle lezioni su Jung. E in tutte, tutte, tutte queste lezioni Jung è pronunciato come fosse scritto Young. E io me li vedo gli americani, che la J la leggono «gi», che si sentono cosmopoliti dicendo no, guarda che non si dice «giàng», e correggono la J ma trascurano la u, e finiamo così, con Jung che devi stare molto attenta per capire che è Jung.

Finché, all’ultima puntata, la ragazza è a colloquio col relatore della sua tesi (o una figura del genere: mica pretenderete evitassi di smessaggiare come una ventenne mentre guardavo), e quello lì, che il dio della dizione ce lo conservi, Jung lo pronuncia giusto.

Quindi c’è qualcuno, a Hollywood, che sa pronunciare un cognome tedesco senza sembrare completamente analfabeta. Ma la voglia di fare divulgazione e dire alla produzione «Guardate che dovete farlo pronunciare giusto anche a chi registra la voce fuori campo» è finita anche lei nell’87. L’anno di “Wall Street”, di “Arma letale”, di “Dirty Dancing”, di “La famiglia”. L’anno in cui andare al cinema era normale, e non si facevano titoli sovreccitati se un film su una bambola aveva il pubblico delle grandi occasioni – le grandi occasioni di rianimazione del morto.