Avete voluto lo streaming?La faccia è mia e me la gestisco io, e altre rimostranze hollywoodiane

Le star protestano perché i produttori vogliono scansionare l’immagine degli attori per poterla riusare all’infinito, senza consenso e senza compenso. Sull’evoluzione dell’intrattenimento urge imparare le lezioni di Robert Altman e di Black Mirror, ma anche quella di Pippo Baudo

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«È un concetto interessante, quello di eliminare gli scrittori dal processo artistico. Se troviamo il modo di liberarci anche di attori e registi, forse si inizia a ragionare». Lo diceva, trentun anni fa, il produttore interpretato da Tim Robbins nel più favoloso film di Altman, “I protagonisti”.

Era lo stesso film in cui, alcuni decenni prima dei social e degli slogan politici che stanno nella misura d’un tweet, gli scrittori potevano prosperare o perire a seconda della loro capacità di convincere i produttori della buona idea d’un film nel tempo necessario ad andare da un piano all’altro in ascensore. Non vorrei ripetere tutti i giorni che le opere di fantasia, qualora siano opere di genio, funzionano da editoriali meglio degli editoriali e da saggistica meglio della saggistica, quindi facciamo finta che non l’abbia rimarcato.

Tra i miei primi lavori ci furono alcuni irrilevanti programmi televisivi che firmavo come autrice. Non avevo io per prima contezza di che lavoro fosse fare l’autrice televisiva: avevo venti e poco più anni, e l’idea romantica, mutuata appunto dai film americani, che gli autori (che lì sono appunto writer, come gli sceneggiatori dei film e i romanzieri: gente che scrive) scrivessero quel che i conduttori dovevano dire.

Come funziona in Italia – dove l’autore televisivo è la dama di compagnia del conduttore nel migliore dei casi e della moglie del conduttore nei peggiori – s’incaricò di svelarmelo la vita servendosi d’una soubrette non amabilissima, che una sera in camerino alzò un sopracciglio e mi disse: «Tu pensi di poter dire a me cosa devo fare? Tu devi stare un po’ con Baudo, per vedere come tratta gli autori». (Pensai: magari, con Baudo, almeno imparerei un mestiere. Lo penso ancora).

Ma quel che m’importa raccontare qui è un altro dettaglio di quegli anni, cioè la conversazione sempre uguale «Che lavoro fai?» «L’autrice televisiva» «E cosa significa?». Seguiva spiegazione del fatto che, quando la valletta leggeva la telepromozione dal gobbo, il gobbo l’avevo scritto io (con tutto quello che avevano speso per farmi studiare). Seguiva stuporone perché, scoprii in quegli anni, il pubblico medio è convinto che il mondo dello spettacolo sia fatto di gente che entra in scena e dice un po’ quel che le viene in mente.

Tutto questo preambolo per dire che lo sciopero americano di cui scrivevo dieci settimane fa si è finalmente fatto interessante. Mentre gli sceneggiatori continuavano a picchettare nell’indifferenza del grande pubblico (di quello americano, per non dire di quello italiano, che non ha mai ben capito che differenza ci sia tra sceneggiatore e scenografo), è scaduto il contratto collettivo degli attori, i loro sindacalisti sono andati a trattare uscendone con poche pive e molto sacco, e da oggi sono in sciopero anche loro. (Alla prima londinese di “Oppenheimer”, Matt Damon ha detto che, se fosse scattato uno sciopero, il cast si sarebbe ritirato dalla promozione del film: quindi niente più foto dalle prime di Barbie e filmati di Tom Cruise che racconta nei talk-show come s’è lanciato in moto dal dirupo?).

Avevo detto di non voler ripetere tutti i giorni la stessa storia della vita che imita l’arte e l’arte che spiega la cronaca meglio di coloro preposti a spiegarla, quindi ora mi limito a trascrivervi la dichiarazione del portavoce del sindacato degli attori, uscito dalla trattativa. «Hanno proposto che gli attori non in primo piano vengano scansionati, prendano un giorno di paga, e poi la produzione sarà proprietaria della scansione, della loro immagine, e potrà usarla per il resto dell’eternità in ogni progetto che voglia, senza consenso e senza compenso».

Ho promesso di non trarre io la conclusione, quindi mi metto comoda e aspetto che vi accorgiate da soli che l’altroieri i produttori americani hanno proposto al sindacato degli attori il sistema che Charlie Brooker ha ideato per “Joan is awful”, la prima puntata della stagione di “Black Mirror” uscita due mesi fa. Nell’epoca che consuma tutto a bocconcini, immagino che sui social stia già girando (o comincerà presto a girare), come commento all’attualità, la scena in cui Salma Hayek s’incazza tantissimo perché stanno usando la sua immagine per un progetto che le fa schifo, e chi se ne importa se gli ho ceduto i diritti, mica potevo prevedere che finisse così.

Charlie Brooker ha sì inventato un colosso dello streaming che crea un’intera serie con la scansione di un’attrice famosa, ma non la pratica, che raccontano sia già in uso per esempio per le scene di massa nei film di supereroi: la Marvel ti scansiona così può aggiungerti in altre scene senza bisogno di farti girare di nuovo, e ciò che ha scansionato – cioè: tu – è perpetuamente suo.

È, tra l’altro, dopo mesi di inutili articoli paranoici sull’intelligenza artificiale che ci sostituirà tutti e i lavori d’ingegno non esisteranno più, il primo esempio concreto del modo in cui si potranno distruggere posti di lavoro con l’aiuto dell’intelligenza artificiale: non per i lavori d’ingegno, ma per quelli d’immagine (sì, lo so che pensate che fare l’attore sia un lavoro d’ingegno: è perché non avete abbastanza ingegno da capire quando non serve averne).

L’eroina di giovedì era Fran Drescher, che con Fran Fine (ebrea di Queens, nell’adattamento italiano Francesca Cacace, ciociara) ha allevato a fine Novecento intere generazioni di femmine frivole e maschi omosessuali. A novembre “La tata” compie trent’anni: andava in onda quando la tv era una cosa che guardavamo tutti assieme e che guardavamo in tv, il che permetteva ai produttori di guadagnarci moltissimo e quindi a sceneggiatori e attori di guadagnare benone.

Adesso non è più così. La parabola è stata la stessa dei giornali: a distanza di qualche anno, i produttori cinematografici come già gli editori si sono fatti truffare dalle nuove tecnologie, terrorizzati di perdere chissà quale treno, e hanno deciso di spostare il loro giro d’affari da posti che permettevano loro di guadagnare (le sale cinematografiche, le edicole) a un posto che nessuno ha ancora capito come diavolo monetizzare (l’internet).

Adesso Fran Drescher è a capo del sindacato degli attori (l’ultima volta che il Sag aveva scioperato, il suo presidente era un certo Ronald Reagan), e ha fatto un discorso che quelli che non sanno parlare definirebbero “virale”. Ha tentato di procurarsi empatia da chi fa lavori normali e pensa che un attore di Hollywood sia comunque un privilegiato dicendo che alle multinazionali «importa più di Wall Street che di voi».

Sugli americani ha fatto moltissimo colpo: la riterrebbero l’erede di Di Vittorio, se solo sapessero che è esistito Di Vittorio. Nel paese più impreparato sul tema dei diritti dei lavoratori, lo scandalo di qualche giorno fa era un articolo di Deadline che riferiva come lo scopo dei produttori sia non concedere nulla agli sceneggiatori finché, dopo mesi che non lavorano, non sapranno più come pagare il mutuo e cederanno. I commentatori americani trasecolavano per la perfidia come può fare solo gente che non sa chi fosse Margaret Thatcher e come andò coi minatori.

Drescher eroina dei lavoratori arriva pochi giorni dopo Drescher responsabile d’alto tradimento, giacché l’internet è perentoria ma è anche afflitta da disturbo della memoria a breve termine. Lunedì, Kim Kardashian ha instagrammato una foto di lei e Fran Drescher alla sfilata di Dolce e Gabbana. L’internet, un posto dove anche la gente che di lavoro dovrebbe capire il mondo diventa stolida, si era indignata. Taffy Brodesser-Akner aveva twittato che il fatto che la presidente del sindacato degli attori, tre giorni prima della scadenza del contratto nazionale, fosse a una sfilata in Italia andava interpretato come uno sprezzante «che mangino brioche». Evidentemente convinta, Taffy, che in Europa si vada ancora in nave e che quindi Drescher non fosse in grado d’essere ad Alberobello di domenica e a Los Angeles di mercoledì.

Giovedì, nella conferenza stampa che annunciava la fine delle trattative e lo sciopero, alla Drescher è toccato spiegare ai giornalisti – gente il cui mestiere consiste ormai nel riportare lo sdegno social come fosse meritevole di risposta – che per un’attrice andare a una sfilata è un lavoro: «Ero lì a camminare coi tacchi sui sanpietrini».

Adesso che lo sciopero è di facce famose, al pubblico importerà, o comunque non ci accorgeremo di niente finché non inizieremo a non avere più roba nuova da guardare, nella bulimia da streaming? Considerato che per svuotare i magazzini dai film e dalle serie già pronte ci vorrà almeno un semestre, quante volte i mutui hollywoodiani dovranno nel frattempo venire congelati?

Forse si può fare qualcosa per far guadagnare decentemente i lavoratori dello spettacolo in tempi di piattaforme semigratuite che producono più di ciò su cui è possibile guadagnare e anche più di ciò che abbia senso guardare.

Non molto si può fare per l’instupidimento di un’epoca piena di piattaforme sulle quali guardare ogni settimana nuove produzioni mediocri e ridondanti, ma su nessuna delle quali è possibile guardare “I protagonisti”.

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