Di fronte all’inflazione galoppante, gli stipendi degli italiani si sono impoveriti più che altrove. L’Italia è il Paese Ocse in cui le retribuzioni dei lavoratori hanno perso maggiore potere d’acquisto, anche perché la metà dei dipendenti ha il contratto scaduto da oltre due anni e da noi non esiste il salario minimo. Eppure, nonostante la frenata delle buste paga, siamo tra i Paesi che meno hanno protestato contro il caro vita.
A dirlo è l’Employment Outlook 2023 dell’Ocse, che ha certificato sì il rimbalzo del mercato del lavoro dopo il Covid-19, ma con una perdita di slancio tra 2022 e inizio 2023 in un generale contesto di rallentamento economico. L’occupazione totale è aumentata nell’ultimo anno, con un incremento dell’1,7 per cento a maggio 2023 rispetto a maggio 2022. Tuttavia, il tasso di occupazione italiano rimane ben al di sotto della media Ocse: sessantuno per cento contro 69,9 per cento.
Ma a preoccupare di più sono i salari italiani. L’aggressione russa contro l’Ucraina ha contribuito all’impennata dell’inflazione, che non è stata accompagnata però da una corrispondente crescita dei salari nominali. I salari reali (quanto si può effettivamente comprare con il proprio stipendio, considerati i prezzi in crescita) sono diminuiti praticamente in tutti i Paesi Ocse – in media del 3,8 per cento in un anno – ma l’Italia è il Paese che ha registrato il calo più forte tra le principali economie: dalla fine del 2022, i salari reali italiani sono scesi del 7,5 per cento rispetto al periodo precedente la pandemia.
«I salari contrattuali sono cresciuti nominalmente meno che in Francia o in Germania», spiega Andrea Garnero, economista dell’Ocse. «Questo fattore si innesta in una già economia debole, come quella italiana, in cui la produttività è cresciuta meno e gli spazi per gli aumenti salariali sono più bassi».
Ma conta anche l’assenza del salario minimo, spiegano dall’Ocse. «Laddove esistono, i salari minimi in media hanno tenuto meglio il passo con l’inflazione», spiega Garnero. «I dati dicono infatti che sono aumentati del trenta per cento del valore nominale negli ultimi due anni e mezzo, quindi anche leggermente sopra il +24 per cento dell’inflazione».
Nella nota riferita all’Italia, l’Ocse non si esprime sulla opportunità che il governo italiano introduca un salario minimo, tema di cui di discute molto in questi giorni. «Certo è che, rispetto alla contrattazione collettiva, i dati dicono chiaramente che i salari minimi sono stati più in grado di tenere il passo con l’inflazione», fa notare Garnero. «Il mix salario minimo-contrattazione collettiva può coesistere, come dimostrano molti Paesi. Ad oggi, la situazione è di profonda diseguaglianza: da un lato abbiamo i contratti rinnovati, indicizzati ai prezzi al consumo, che proteggono bene alcuni lavoratori, e poi fuori c’è il deserto dei tartari e si salvi chi può».
In Italia, i salari fissati dai contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il sei per cento solo nel 2022, continuando a perdere valore poi nel 2023. Anche perché, contrariamente ad altri Paesi che hanno rinnovi contrattuali più brevi, da noi i contratti collettivi vengono rinnovati ogni tre anni, con un gap di tempo più lungo, rendendo ancora più difficile che i salari stiano al passo con la crescita dei prezzi. Se a questo quadro normativo poi si aggiungono pure nella pratica i ritardi nei rinnovi, il danno è fatto: oltre il cinquanta per cento dei lavoratori oggi è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni, rischiando quindi di prolungare la perdita di potere d’acquisto per molti lavoratori.
Si tratta di un calo particolarmente significativo se si considera che, a differenza di altri Paesi, la contrattazione collettiva copre, in teoria, tutti i lavoratori dipendenti. Secondo le proiezioni Ocse, non a caso, in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7 per cento nel 2023, praticamente quasi la metà rispetto all’inflazione che dovrebbe attestarsi al 6,4 per cento.
E tutto questo sta avvenendo in un contesto di relativa «pace sociale» rispetto alle proteste più corpose e rumorose a cui si è assistito in altri Paesi, dalla Francia al Regno Unito. Nel report, l’Ocse dedica una parte proprio alle giornate di lavoro perse per via di mobilitazioni e proteste in difesa dei salari. In Italia, a parte gli scioperi generali contro la legge di bilancio e qualche fermo di categorie di lavoratori, non si è scesi in piazza per chiedere rinnovi dei contratti e aumenti di stipendio. Ma in alcuni Paesi, le proteste hanno funzionato. In Norvegia, ad aprile, dopo quattro giorni di sciopero, è stato raggiunto un accordo per un aumento del 5,2 per cento dei salari nel settore manifatturiero.