Come quasi sempre accade a luglio i giornali sono pieni di polemiche inutili, come le chiamava Nanni Moretti che in “Aprile” ci riempiva un faldone, dopodiché facendola breve sappiamo tutti che la politica è molto debole, a partire dal governo per finire ai partiti dell’opposizione non si salva nessuno. Nota il direttore del Foglio Claudio Cerasa che «la fragilità del governo è evidente» per poi concludere con una specie di salto carpiato che «Meloni è in stato di grazia»: non afferriamo bene il nesso tra premessa e conseguenza ma forse si vuole dire che in una parte del Paese domini una illusione ottica che fa vedere una presidente del Consiglio forte e capace alla guida di un esecutivo molto mediocre. Può darsi: ma nella realtà se così fosse non cambierebbe nulla.
Finora lei o ha rinviato (giustizia, riforme, Pnrr) o ha sfruttato un venticello favorevole senza muovere un dito (economia) ma qual è un successo personale della presidente del Consiglio? La politica estera? Concretamente che cosa ha fatto Giorgia a parte confermare giustamente la linea di Mario Draghi e i salamelecchi in consessi internazionali dove conta davvero poco? Dietro il muro di gomma della propaganda di telegiornali sempre più imbarazzanti si stagliano le ombre di difficoltà reali nel campo principale dell’azione di governo: l’economia. Anche qui Meloni ha fatto zero.
E la verità che si offre nuda a noi, come diceva Lucio Battisti, è che le cose non vanno bene anche se i governanti e i loro staff sono abbastanza bravi a mettere la polvere sotto il tappeto e a rinviare il momento della verità. Questa però a un certo punto presenta il conto, e a settembre inizierà la danza macabra della Nadef e della legge di Bilancio.
Il Sole 24 Ore ci informa che in sostanza i soldi mancano, che il Prodotto interno lordo frena, che l’inflazione si è mangiata un mare di risorse (a proposito, non è che aveva ragione Christine Lagarde a impostare la sua azione contro l’inflazione che infatti sta scendendo?) costringendo il mistero dell’Economia Giancarlo Giorgetti a un giro di valzer con ciascun ministro per capire quanto potrà tagliare dei bilanci dei rispettivi ministeri. Scrive Gianni Trovati sul Sole: «Nel 2012 nel tentativo di spegnere la tempesta sullo spread volato a cinquecentosettantacinque punti, il governo Monti limitò la spesa complessiva a 801,1 miliardi, cioè il 6,7 per cento in meno rispetto a tre anni prima. Oggi invece il programma di finanza pubblica prevede uscite per 1076,8 miliardi, con un taglio reale rispetto al 2021 di 10,4 per cento». Questi sono numeri, non è fuffa. Si spera nel Pnrr per rimettere in moto un’economia imballata ma se si deve giudicare da ciò che (non) è stato fatto sinora c’è da essere preoccupati.
Ieri il Governo ha annunciato con grande trionfalismo di aver sbloccato la terza rata (decurtando cinquecento milioni), era ora: sono passati quasi nove mesi da quando Meloni è in sella, non pare che si sia realizzato granché. Ma tornando ai problemi del bilancio, si ipotizza che per un settore già in enorme difficoltà come la Sanità un taglio di circa l’11,5 per cento rispetto al 2021 (consiglio non richiesto alle opposizioni: fate una seria battaglia su questo invece di perdere tempo con la carne sintetica), con il povero professor Orazio Schillaci, ministro della Salute, che essendo un tecnico non potrà fare nulla di fronte al taglio voluto da Giorgetti.
Il fronte della Sanità è forse l’esempio più eclatante e drammatico della assoluta inerzia del governo Meloni che fino a questo momento non ha saputo mettere in campo alcun serio investimento né tantomeno interventi riformatori. Lo abbiamo già scritto: qualcosa non va proprio nella macchina. Negli ambienti governativi ci si lamenta del cattivo rapporto tra i politici e i tecnici dei ministeri e dello stesso palazzo Chigi, dove Giorgia Meloni vive solipsisticamente in una dimensione tutta sua, e non si parla affatto bene di alcuni ministri, come il titolare dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che in caso di un rimpasto (oddio, già ci siamo?) sarebbe uno dei primi a saltare. Sono solo voci. E tuttavia questo nervosismo generale non aiuterà certo il buon Giorgetti nella sua impresa di far quadrare i conti.
Se siamo al punto che via XX Settembre ritiene indispensabile entrare nei conti correnti degli italiani per riscuotere somme dovute vuol dire che qui ormai vale tutto pur di fare cassa: è non è un bel segnale. Si va dunque verso un’altra legge di Bilancio molto difficile e per di più dentro un quadro di governo estremamente teso, dominato da preoccupazioni sui casi Daniela Santanchè e Andrea Delmastro, da evidenti litigiosità (il protagonismo di Salvini), dalla povertà programmatica dell’esecutivo. E meno male che Giorgia è in stato di grazia.