La mitica riforma della giustizia, quella con la separazione delle carriere, è finita in un cassetto di via Arenula da dove chissà se e chissà quando Carlo Nordio la ritirerà fuori. Per ora non c’è niente. Il Guardasigilli è stato sbugiardato anche su un’ipotizzata riforma del reato di concorso esterno in associazione mafiosa («Una cazzata», l’ha definita il post-missino Gianni Alemanno): il risultato finale è che Nordio, un ministro che avrebbe voluto fare una riforma garantista, è ormai estraneo a questo Governo.
La grande riforma fiscale, quella con la flat tax, non esiste, esistono solo gli ammiccamenti di Matteo Salvini a non pagare le tasse, tanto poi ci sarà qualche rottamazione delle cartelle mentre intanto si produce il fenomeno per cui molti cittadini aderiscono ai concordati fiscali e poi non pagano le rate confidando in un successivo condono.
Sul Pnrr, dopo le presunte assicurazioni di Raffaele Fitto siamo fermi alla seconda rata, in ritardo rispetto a tutti gli altri paesi europei abbiamo la terza rata bloccata (sarebbe dovuta arrivare a marzo); e la quarta, prevista per fine giugno, slitta. Il motivo di questo ritardo non è chiaro: il governo ha deciso di modificare degli obiettivi, di non rispettare alcune scadenze, di non fornire dati trasparenti e chiari al Parlamento.
Il progetto di Roberto Calderoli sulla autonomia differenziata è moribondo soprattutto dopo l’uscita dalla commissione Cassese di giuristi come Giuliano Amato, Franco Bassanini, Franco Gallo e Alessandro Pajno. Della riforma presidenziale non si parla più, tutto rinviato.
Sull’immigrazione il Governo sta facendo entrare tutti rovesciando la logica dei porti chiusi con cui vinse le elezioni anche perché si rende conto di un semplice dato di realtà, cioè che la forza lavoro degli immigrati è essenziale per far funzionare l’economia italiana. Sulla disoccupazione ha abolito il reddito di cittadinanza ma senza una vera riforma del mercato del lavoro. Su sanità, scuola, università e ricerca zero assoluto. I promessi finanziamenti per l’Emilia-Romagna non arrivano.
Alla Rai meloniana c’è un problema al giorno. E lasciamo qui stare le vicende nere che riguardano Ignazio La Russa, Daniela Santanchè e Andrea Del Mastro, tre storie diverse che è stato il Governo ad accomunare quando è stata fatta filtrare una nota anonima di Palazzo Chigi, poi rivendicata da Meloni, nella quale si accusava la magistratura di «fare opposizione», in sostanza di complottare contro il Governo; ed è dovuto poi intervenire il presidente della Repubblica per riportare un minimo di ordine.
Poi ci sono alcune stramberie vere e proprie, come la gitarella Roma-Pompei con i cronisti blindati in una carrozza con il redivivo Mario Sechi (ma non era andato via?) a disciplinare il traffico. La sensazione non è che le cose siano sbagliate – certo, anche – ma che non funzionino proprio.
Ci sono ministri desaparecidi e altri che fanno confusione e altri ancora che rinviano ciò che dovrebbero fare. C’è qualcosa che sta ingrippando i meccanismi dei ministeri-chiave e persino di palazzo Chigi, e forse questo è una ragione, magari psicologica, che spiega i continui viaggi all’estero di Giorgia Meloni: ieri e oggi a Bruxelles. Nessuno nega l’importanza delle relazioni internazionali e però è un fatto che la presidente del Consiglio stia molto più tempo fuori che dentro Palazzo Chigi. Vero, i decreti di questo governo sono parecchi. Eppure il fatto che molte, troppe cose stiano girando a vuoto non è effetto del caldo micidiale che toglie la voglia di fare. Ma assomiglia tanto a un problema politico, e di quelli seri.