I conti non tornano. Nella narrazione di Giorgia Meloni sul ruolo dell’Italia in Europa sono molte le cose che non quadrano. A cominciare dalle sue dichiarazioni ottimiste e piene di soddisfazione riguardo le conclusioni del Consiglio europeo del 29 e 30 giugno in cui il tanto atteso Patto su Migrazione e Asilo è naufragato per l’opposizione di Polonia e Ungheria.
A nulla è servita la sua mediazione, incapace di spostare di un millimetro le posizioni di Mateusz Morawiecki e Viktor Orban, decisi a non sborsare un euro per il ricollocamento dei migranti. A dire di Meloni, le istanze dei suoi alleati sovranisti sono legittime, «è normale che ognuno faccia gli interessi della propria nazione», salvo non menzionare le conseguenze, ovvero il blocco totale che impedisce di prendere decisioni nei tempi stabiliti e proteggere i comuni interessi dell’Unione europea. Chiudere il dossier sarà possibile anche senza i sovranisti d’Europa, ma è evidente l’irritazione registrata tra i partner europei, infastiditi dai continui ostacoli e rallentamenti.
Nella sua versione dei fatti, Meloni giustifica le posizioni polacche e ungheresi come conseguenza delle vessazioni che entrambi i Paesi subiscono dall’Unione europea. L’oggetto della disputa è il mancato pagamento delle rate del Pnrr a causa delle ripetute e flagranti violazioni dello stato di diritto, che rappresenta una condizione fondamentale per l’accesso ai fondi. Così la Commissione si limita a rispettare i suoi regolamenti, evitando di diventare il bancomat dei governi illiberali. Severo ma giusto, verrebbe da dire.
Inoltre, sempre sul tema immigrazione, Meloni insiste sulla dimensione esterna ribadendo che su questo punto vi è accordo tra i ventisette. Vero. Si deve ammettere infatti, che la posizione prevalente è quella dell’Europa “fortezza” che non permette ai migranti di raggiungere le nostre coste, a fronte di lauti pagamenti ai governi rivieraschi perché fermino la disperazione dei migranti. Tuttavia, quando la presidente del Consiglio parla di relazioni con l’Africa e del suo sviluppo economico, che assicurerebbe buone condizioni di vita evitando così i flussi migratori, omette qualcosa.
Il suo Governo in legge di bilancio ha infatti tagliato cinquanta milioni all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, indebolendo di fatto l’unica struttura istituzionale italiana che concretamente opera assieme alle organizzazioni della società civile per la lotta alla povertà e alle disuguaglianze con il Sud del mondo. Inoltre, la legge di bilancio per il 2023, conteggiando la spesa per l’accoglienza dei rifugiati come aiuto pubblico allo sviluppo, nonostante questa non sia cooperazione genuina con i paesi del Sud del mondo ma assistenza ai richiedenti asilo sul nostro territorio, gonfia la spesa per la cooperazione, ridotta a stanziamenti insufficienti.
Insomma, tirando le prime somme, possiamo dire che il sovranismo non funziona come non funziona l’ossimoro dell’Europa delle nazioni che tanto piace a Meloni e Morawiecki. Non funziona perchè la chiusura verso gli alleati e la pretesa di veder serviti i solo propri interessi contraddice la base del principio di comunità e non assicura appoggio quando sei tu ad avere bisogno degli altri. Polonia e Ungheria lo stanno già sperimentando con i rubinetti chiusi da Bruxelles.
Seconda considerazione: il ruolo di Giorgia Meloni nelle prossime alleanze europee
La presidente del Consiglio e leader dell’Ecr (European Conservatives and Reformists Group), partito dei conservatori europei, reitera la volontà di rompere l’alleanza storica tra Popolari e Socialisti, quella che a suo dire ha portato l’Unione europea alla catastrofe. Eppure la storia insegna che l’Unione si è rafforzata a ogni crisi e a ogni compromesso duramente ricercato tra le grandi famiglie politiche europee. Così è stato dopo la pandemia del Covid-19 e l’aggressione russa in Ucraina.
Ma c’è di più. È vero, esiste una variazione a queste alleanze, un precedente che non ha rotto gli equilibri ma li ha innovati e rinforzati. Quel precedente si chiama Renew Europe, gruppo politico che nel 2019 ha rinnovato l’allora Alde (Gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali e per l’Europa). L’ha innovato da una parte fornendogli una larghissima nuova compagine di eurodeputati francesi, eletti nelle file del partito di Emmanuel Macron che ne ha rafforzato la rappresentanza. Dall’altra ha delineato nuovo nome e ha innestato una componente politica inedita, un nuovo gruppo capace di essere, di fatto, ago della bilancia tra popolari e socialisti.
Nel 2019 dunque, l’emergere di Renew Europe insieme all’avversione della Cancelliera Angela Merkel nei confronti dell’allora candidato Ppe alla Commissione europea, Manfred Weber, unito ai negoziati intergovernativi in seno al Consiglio, portò alla designazione di un nuovo nome nella Presidenza della Commissione. Ursula von der Leyen venne confermata in Parlamento dai voti di Popolari, Socialisti (con qualche defezione), Renew Europe, i Cinque stelle allora al governo con il Conte II e una parte dell’Ecr.
Da allora, Manfred Weber non ha digerito la sconfitta inflittagli dal suo stesso partito e, per tutta la legislatura, non ha mai smesso di tentare smottamenti ai danni della Presidente von der Leyen, in asse con i conservatori dell’Ecr. Molto spesso i tentativi di Weber sono andati a vuoto, ampliando la spaccatura nel Partito Popolare Europeo e i mal di pancia dei Popolari verso il loro stesso leader. Tuttavia, già da diversi mesi, molti voti al Parlamento europeo hanno fatto venir meno l’alleanza iniziale, ridisegnando nuove geografie politiche.
Le cause si rintracciano nell’arroccamento dell’area socialista che ha allontanato il gruppo dei Socialisti e Democratici dall’essere il primo interlocutore dei Popolari. Vi è inoltre da considerare il ruolo svolto dai Verdi, che godendo a inizio mandato di un crescente consenso in diversi Stati membri, in primis in Germania, sono stati considerati essenziali nelle dinamiche negoziali. Ciò ha portato i maggiori gruppi politici a fare concessioni ai Verdi, in particolare sulle iniziative legislative in materia ambientale, salvo poi scoprire al momento del voto la loro inaffidabilità, ritrattando il sostegno di ogni accordo precedentemente siglato. Questo pantano ha naturalmente aperto la strada ad un avvicinamento tra popolari e conservatori.
Oggi, in vista delle europee, i progressisti temono la svolta conservatrice e sovranista dell’Europa, che non arriverà. Non arriverà perchè Socialisti, Popolari e Renew non subiranno ridimensionamenti rilevanti. Ci sarà una possibile crescita dei conservatori e una diminuzione dei seggi del gruppo Id, dove siede la Lega di Salvini, il Rassemblement national di Marine Le Pen, e il partito Afd tedesco (Alternative für Deutschland) che imbarazza non poco anche i più convinti leghisti, oltre che Forza Italia. Ma questi cambiamenti, del tutto fisiologici, anche se confermati, non provocheranno il sovvertimento della politica europea. Perché gli equilibri in Consiglio rimarranno pressoché gli stessi. Giorgia Meloni è potenzialmente in una posizione di forza: è capo di governo di un grande paese fondatore, è la leader di un partito europeo (Fratelli di Italia potrebbe crescere rispetto al 2019, quando arrivò intorno al 6,4 per cento).
Tutto questo, però, non basterà a renderla la kingmaker del 2024. I suoi progetti non funzioneranno perché non ha dato alcuna prova di affidabilità – si veda il Pnrr e il Mes – e il suo gruppo, insieme al Ppe non avrebbe né sufficienti numeri in Parlamento né la maggioranza del sessantacinque per cento in Consiglio.
Pensare ad un accordo senza il consenso di Francia e Germania è pura fantasia. Inoltre, al netto dei numeri, sul piano politico andrebbe ricordato che il Ppe è spaccato, la Cdu e la Csu rifiutano di abbandonare i vecchi lidi per un’incerta alleanza con Ecr, in cui siede il partito polacco Diritto e Giustizia del premier Morawiecki, da anni sotto osservazione dell’Unione per le ripetute violazioni dello stato di diritto.
I Popolari che credono a un’Unione integrata e unita non vogliono prestarsi ad alleanze con partner che rifiutano i valori fondamentali europei. Meloni di fatto non sostiene l’agenda europea ma la rallenta, mentre Morawiecki e Orban rappresentano problemi anche nella partita decisiva che si gioca in Ucraina. Da qui nasce il pressing di Weber su Meloni per spingerla a fare a meno dell’alleato polacco. In questo modo, l’Ecr si sbarazzerebbe della sua macchia e sarebbe allora presentabile per servire il piano di Weber.
Tuttavia, anche su questa prospettiva i popolari non si scaldano, in particolare i tedeschi, che perdendo von der Leyen alla guida della Commissione, dovrebbero suggerire un commissario dei Verdi, come stabilito dall’accordo di coalizione del governo Scholz. Soluzione invisa sia alla Cdu che a Spd, recalcitranti ad offrire un posto al sole in Europa ad un alleato di governo scomodo e in caduta libera nei consensi. Ovviamente neanche Macron avrebbe alcun interesse ad aprire la strada ai conservatori. A Giorgia Meloni resta la possibilità di stravincere le Europee restando irrilevante, come toccò alla Lega di Salvini con il 34,3 per cento dei voti e presentare un Commissario italiano con un portafoglio pesante, a patto che sia autorevole. Dispone di questo profilo? Le vicende recenti confermano il contrario. E così la realtà con cui la sua narrazione ottimista dovrà fare i conti è quella di un’Europa dove, più che i numeri, valgono le relazioni e l’affidabilità. Vale la capacità di chiudere compromessi e avanzare nell’agenda politica europea, per portare ai cittadini l’evidenza di risultati raggiunti. Ai conservatori di Meloni non resta quindi che accodarsi ad un accordo che vedrebbe la luce anche senza di loro.