In un Paese in cui la discussione di politica economica si sta centrando tutta sul determinare un prezzo minimo per il lavoro, perché non decidere per legge anche un prezzo massimo per beni e servizi? I calmieri si fondano su un equivoco difficile da sradicare: l’idea che i prezzi siano “qualcosa che si paga”, e come tale la loro determinazione stia esclusivamente nelle mani del venditore. In realtà i prezzi sono indicatori sintetici: veicolano informazioni. Sono informazioni che servono non solo per il bilancio delle famiglie (se la carne continua a rincarare, mi orienterò su una dieta che ne preveda di meno) ma soprattutto per le imprese (se un certo fattore produttivo diventa più scarso, cioè più caro, cercherò dei sostituti). Bloccare i prezzi vuol dire bloccare il flusso di informazioni che consente produzioni complesse e multiformi come quelle che conosciamo nelle nostre società.
Ma i politici pensano al consenso, e sotto questo aspetto non si scappa: prezzi crescenti possono essere un problema. Soprattutto se non si accetta che l’inflazione possa essere stroncata solo in un modo, cioè dalle banche centrali. Come purtroppo sta facendo il governo italiano, che preferirebbe che la Bce (Banca centrale europea) andasse avanti come negli ultimi dodici anni, garantendo così implicitamente il debito italiano.
Finora, beninteso, ci si è limitati ad annunciare misure che non hanno visto la luce o a esercitare la moral suasion, cioè, in sostanza, a fare la voce grossa. Eppure, continuano a moltiplicarsi i casi in cui esponenti dell’esecutivo minacciano interventi di limitazione agli aumenti. Da ultimo, si è ipotizzato un trimestre anti inflazione, chiamando tutta la filiera dell’agroalimentare, dai produttori alla grande distribuzione a un accordo contro gli incrementi. Prima si è a lungo parlato, di volta in volta, di mettere un tetto ai rincari dei biglietti aerei (non proprio un bene di prima necessità), dei carburanti, dei mutui a tasso variabile e chissà quante altre cose.
Sfortunatamente, gli aumenti dei prezzi dei singoli beni possono derivare solo da due cause: o aumenta la domanda o si restringe l’offerta (o entrambe le cose). Il prezzo comunica ai consumatori che occorre trovare un nuovo equilibrio di mercato, consumano meno di quel bene, sostituendo i beni più richiesti con potenziali alternative, e investendo per accrescere la disponibilità dei prodotti maggiormente domandati. Gli interventi muscolari non servono a nulla se non a peggiorare la situazione, attenuando o addirittura cancellando il messaggio che ci arriva dai mercati e, dunque, allontanando la soluzione e acuendo la crisi.
L’idea che i prezzi possano essere manipolati a piacimento dei governi è una delle poche cose effettivamente bipartisan che ci siano in Italia. Il centrosinistra ci provò con le mascherine durante il governo Conte 2, i tecnici si illusero di poter risolvere la crisi del gas con un price cap all’epoca di Mario Draghi, e adesso il centrodestra, memore di quella lezione, coltiva fantasie ancora più ampie. Intanto, questi stessi governi contribuivano all’inflazione distribuendo sussidi a pioggia (cosa che, finora, il governo Meloni ha cercato di evitare) e chiedendo alla Banca centrale di stampare moneta senza limiti (cosa che, invece, Meloni chiede con enfasi).
È comprensibile che i politici vogliano mostrarsi sul pezzo e cerchino un modo di risolvere un problema che affligge molti elettori. L’unica strada per uscire dalla spirale inflazionistica – che proprio grazie ai rialzi dei tassi da parte della Bce sta cominciando a cedere – è riassorbire la quantità di moneta in eccesso e, semmai, togliere vincoli alle imprese in modo che i mercati possano reagire più rapidamente agli squilibri che la politica stessa ha contribuito e sta contribuendo a determinare.