Ho un’amica che non è il ritratto della salute. Ogni tanto qualcuno mi chiama, chiedendo: ma come sta? Ma a te ha detto cos’ha? (Immagino che analoghe conversazioni possano in mia assenza riguardare me, che pure non figuro nella Treccani alla voce «massimo della forma»).
Di solito dico no, non lo so, parliamo d’altro, se volesse parlare della sua salute ne parlerebbe, e di solito la conversazione si conclude con: eh ma dobbiamo sapere. Ma perché dobbiamo sapere? Uno avrà il diritto di vivere e morire come vuole, di raccontare e tacere quel che gli pare?
C’è stato un momento, qualche anno fa, in cui che le persone famose raccontassero i loro malanni, le loro agonie, le loro diagnosi, c’è stato un momento in cui era una novità. Come tutte le novità, sembrava strana, e molte altre cose tra cui: significativa.
Come tutte le novità, incontrò una fase iniziale di moralismo spicciolo. Eh ma l’esibizionismo, eh ma la pornografia del dolore, eh ma la rava, eh ma la fava, eh ma io non lo farei mai. All’epoca noi felici pochi col senso del ridicolo provavamo ad arginare i moralisti da due spicci dicendo: ma che ne sai, di che faresti se ti dicessero che muori tra sei mesi. Che ne sai di come reagiresti. E soprattutto: ma perché gli altri devono morire come piace a te.
Poi, come tutti i cambiamenti clamorosi del costume avvenuti in questo secolo, la morte in diretta è diventata rapidamente normale, e adesso postare le foto della propria chemio non è più strano che postare quelle della pizza (ma si prendono più like, perché pure chi ti detesta – e sotto la foto della pizza scriverebbe «tu mangi la pizza da trenta euro e io non arrivo a fine mese, vergogna» – si sente un infame a non metterti un cuoricino se gli stai dicendo che sei terminale).
Nel 2023, solo chi è appena tornato da Marte ritiene che dare pubblicamente conto d’una propria malattia rappresenti qualcosa, qualunque cosa: che sia significativo, che (scusate la parola) normalizzi, che (scusate di nuovo la parola) sdogani.
Diceva Maurizio Costanzo che, quando ti chiedevano come stavi, bisognava sempre rispondere con qualche acciacco, così l’interlocutore poteva compatirti invece che invidiarti e ti risparmiavi gli spilloni nella bambolina. L’idea instagrammatica della bellissima che si riprende in lacrime o con lo smalto sbeccato per sembrarci meno aliena e irraggiungibile è la modernizzazione di quell’ovvio concetto, e mostrare le malattie è il perfezionamento di quella strategia: sono fragile, sono come voi.
Quando Nora Ephron è morta di nascosto, undici anni fa, non ha fatto impressione che non avesse fatto la cronaca momento per momento delle proprie cartelle cliniche: ancora non si faceva. Ha fatto impressione che non l’avesse detto agli amici, che i familiari abbiano dovuto chiamare chi doveva parlare al suo funerale dicendo: voleva che facessi un discorso pubblico, ma in privato non voleva dirti che stava morendo.
Che poi non è neanche vero che non l’avesse detto: l’aveva detto in letteratura, aveva pubblicato pochi mesi prima un libro in cui elencava le cose che le sarebbero mancate e le cose che non le sarebbero mancate, e nessuno di noi stolidi conoscenti, intervistatori, lettori, recensori, si era posto l’elementare domanda «ma le mancheranno perché? Dove andrà, che non ci saranno più Sarah Palin e i convegni sul cinema femminile?».
Quando, quattro anni dopo, uscì Blackstar, un disco così pieno di morte che in confronto il Requiem di Mozart era una marcia nuziale, a nessuno venne il sospetto che pochi giorni dopo sarebbe arrivata la notizia della morte di David Bowie.
Ma, poiché viviamo in un mondo di mitomani, e poiché chi osa far ciò che oggi è diventato eccezionale – non trasformare la propria morte una rappresentazione pubblica – ci priva del nostro diritto a sentirci dentro le cose, a saperla lunghissima, a fare i capiscioni, a causa di tutti questi nostri complessi, in morte di Bowie arrivarono quelli che a Ephron erano stati risparmiati: quelli che «certo, nell’ambiente si sapeva».
Ieri, mentre i conoscenti di Andrea Purgatori si telefonavano sconvolti dicendosi «ma mi aveva detto “un problema”, ma in un tono che io pensavo psoriasi», i social e le chat si riempivano di saperlalunghisti che inventavano diagnosi. Il «me l’ha detto mio cugino» della causa di morte è lo scotto che paghi se non ti fotografi in reparto.
Di Andrea Purgatori racconteranno tutti, del suo eccezionalismo (l’ha scritto Antonio Dipollina, ed è vero: era uno che non era fuoriposto mai, né quando faceva le inchieste né quando faceva il cazzone). A me fa impressione soprattutto che, quando lo chiamarono per dirgli che Ustica non era come sembrava e lui si mise lì e fece la storia del giornalismo italiano, aveva ventisette anni. Non so se vi ricordate i vostri ventisette anni: io mi ricordo i miei.
Delle cose importanti racconteranno tutti, e io vorrei quindi confermare la pessima opinione che avete di me raccontando una scemenza. Le donne che conosco si dividono (non voglio usare l’imperfetto) tra quelle che considerano Purgatori il massimo sex symbol della tv italiana, e quelle che dicono «ma per carità» (le seconde sono una minoranza, ma agguerrita).
Sei settimane fa ho passato la serata con una della mozione «per carità», e abbiamo baccagliato a lungo sul tema caldo della sdraiabilità di Purgatori (gli uomini presenti erano un po’ imbarazzati, e molto invidiosi). La mattina dopo ho chiamato un mio amico, che era anche uno dei più cari amici di Andrea Purgatori, e gli ho detto ma ti rendi conto, si mettono in discussione i fondamentali.
Lui, che diversamente da me sapeva come stava Purgatori, gli ha fatto il più gran regalo che si possa fare a uno che non vuole stare male in pubblico: ha fatto finta di non essere triste e preoccupato, ha simulato allegra complicità, e si è prestato per un minuto a discutere delle sfumature di sdraiabilità (col caldo meno, con l’aperitivo e l’aria condizionata di più: lo sapete, sono conversazioni che avete anche voi, ma di solito le avete su gente che poi campa ancora a lungo).
Ieri, quando un’amica di Purgatori mi ha scritto «affrontava tutto con allegria: anche le rotture di coglioni», ho pensato che ci sono tantissime ragioni per decidere di morire in pubblico, dall’affetto degli sconosciuti al bisogno di riempire la smisurata solitudine di certi reparti ospedalieri; ma stare male di nascosto è l’unica cosa che puoi fare se non vuoi passare mesi, anni a incarnare il lutto collettivo: se vuoi, invece di ricevere la contrizione dei passanti per la fine imminente, mentire e conservare per qualche attimo ancora la possibilità dell’allegria.