Ho cinquant’anni, e di essi credo di averne trascorsi non più di tre da magra. Con magra non intendo: una 44 (cioè, se siete maschi e non capite di taglie: una donna normale di cui non notate né la magrezza né la grassezza; cioè, se siete femmine: quella taglia indossando la quale pensate che tre chili vi separino dalla felicità). Con magra intendo: magra.
Magra che le amiche ti dicono: come sei magra (che se sei una trentenne è il massimo complimento possibile, e qualunque età tu abbia i vestiti ti cascano meglio). Magra che quando, anni dopo, rivedi le foto, dici ammirata: ma com’ero magra.
Una volta, in un periodo in cui ero appunto normale e non magra, normale e non grassa, andai in televisione a vendere chissà che libro. C’erano già i social, e uno spettatore mi scrisse che ci era rimasto malissimo, vedendomi. Che lui pensava fossi magra. Che così era troppo facile.
Credo intendesse: una col culone mica devo conquistarla, sarà così poco abituata alle attenzioni che me la darà per gratitudine. Trovo sempre inspiegabile la convinzione dell’umanità che abbiano una vita sessuale solo i belli: è una convinzione che prevede che ad accoppiarsi sia una minoranza, Brad, Angelina, pochissimi altri – come siamo diventati otto miliardi con una così feroce selezione estetica all’ingresso delle mutande?
Questa settimana la storia di copertina del New York parla dell’Ozempic, che sta al 2023 come il Prozac stava agli anni Novanta: le medicine create per un’altra ragione (l’Ozempic per il diabete, il Prozac per la depressione), ma che tutte prendono per dimagrire.
L’amica dell’autore dell’articolo che parla per prima racconta una storia simile a quella dello spettatore che aveva preso male la mia 44: qualcuno le ha detto che prima d’incontrarla la pensava più magra, che si esprimeva come una taglia 36. Qualcuno ha pensato che una non 36 non potesse essere qualunque cosa lei fosse – allegra? sicura di sé? competente? – e lei, invece di dirsi «ma tu pensa quanto possono esser cretini gli esseri umani», ha continuato a rimuginarci.
E quindi un bel giorno ha cominciato a farsi punture nella pancia, punture d’un medicinale per il diabete che, se te lo inietti senz’avere il diabete, alza non so che ormone che ti fa passare la fame. Notazione collaterale: non so in quante si facciano punture nella pancia a New York, so che a Milano se le fanno davvero tutte. Perché a nessuno, me compresa, è finora venuto in mente di fare non dico la copertina d’una rivista ma anche solo un articolo su questa nuova mania?
Non è che non avessimo notato il fenomeno, è impossibile non notarlo visto che nessuna signora cui piacciano i vestiti parla d’altro. Saremo stati troppo occupati a occuparci di fenomeni posticci quali i bambini trans, per accorgerci di quelli effettivamente in essere? Forse c’entrano le celebrità. In America ci sono quelle che hanno negato (Kim Kardashian) o ammesso (Chelsea Handler) d’esserselo iniettato; le nostre famose figurarsi, rilasciano dichiarazioni tipo «mangio un po’ di tutto». E, se fossi il loro ufficio stampa, direi loro di continuare. L’estate scorsa i social hanno linciato per settimane una dietologa colpevole d’avere, su TikTok, fatto presente che il melone fa salire l’indice glicemico. Vogliamo tutte essere magre, ma se dici quali cibi fanno ingrassare sei una disgraziata che incita all’anoressia.
Quando, qualche mese fa, hanno iniziato a parlarmi delle punture, ho chiesto lumi a un amico medico, che è anche uno di quelli che stanno spesso a dieta. Lui mi ha domandato di che si trattasse; gli ho spiegato che a quanto avevo capito l’effetto era di una nausea permanente per cui non mangiavi più: cioè facevi per alterazione chimica quel che non facevi per forza di volontà; mi ha chiesto secondo me lui poi come sarebbe potuto entrare in sala operatoria ad aprire gente se aveva la nausea.
Ne era seguita una conversazione sui massimi sistemi di questo tempo assurdo in cui ci troviamo ad abitare, in cui l’ossessione per la magrezza è precisa identica a quella del secolo scorso, ma dobbiamo dire non solo che grasso è bello, ma anche che l’obesità non ha nulla a che fare col cibo. Mio padre, quando parlavo di diete, diceva una frase per cui credo che oggi verrebbe linciato da quindici diversi strati di suscettibilità: «Da Auschwitz non è mai uscito grasso nessuno».
Avanzamento veloce di qualche decennio, e scopro che la sua implicazione – che evidentemente non stessi poi così tanto a dieta, altrimenti sarei stata pelle e ossa come chi veniva privato a forza del cibo – viene smentita dalla suscettibilità social, che chiede di smetterla di mostrare prigionieri dei lager troppo magri, giacché questa convinzione è una forma di quella che la neolingua chiama grassofobia.
Per ogni tweet che dice che per verosimiglianza i film sulla Shoah dovrebbero mostrare prigioniere con l’aspetto di Lizzo, tweet che possiamo liquidare come il delirio d’una Vongola75 americana, c’è però un professionista della medicina che su Instagram è pronto ad attrarre cuoricini e clientela giurandomi che il mio essere una vescica di lardo non è per niente conseguenza dei tre etti di pasta che ho mangiato a cena: l’obesità è epigenetica e ambientale. Sono quelli che mi dicono «vescica di lardo» che mi fanno diventare tale, se non me lo dicessero questi tre etti di bucatini non m’impedirebbero di diventare una 36. Laureiamo in medicina proprio chiunque? Sì, ma non mi sento di dare torto al fantasioso teorico del grasso come non conseguenza del cibo: chi ha voglia di farsi linciare per aver detto la verità sul melone?
Il problema è che i fessi opinionisti postmoderni, nella propaganda della body positivity, non tengono conto di quel dettaglio che dicevo prima: la convinzione – peggiorata coi telefoni che fanno le foto – che essere fotogeniche significhi essere felici. (Spero che non dovremo dibattere del fatto che le magre vengano più facilmente bene in foto). Eri più felice, da magra?, mi ha chiesto tempo fa senza traccia d’ironia una di quelle che scrivono sui giornali che curvy è bello e che però se mettessero su due chili si butterebbero dalla finestra. Non gliel’ho detto, ma probabilmente no: con la fatica che si fa a essere magre, probabilmente ero più stanca.
Avendo noi deciso che il processo di causa ed effetto è una leggenda inventata dal patriarcato, è chiaro che a dieta non voglia più starci più nessuno. Ma, siccome vogliamo comunque entrare nei vestiti belli e che il culone non faccia tirare la seta sui fianchi, arrivano le punturine. I profitti dell’azienda che produce le punture nauseanti sono saliti tantissimo, ma poiché non produce vaccini questo dato non viene considerato allarmante. Ci iniettiamo della roba creata per una malattia che non abbiamo, magari tra dieci anni ci cresce la coda, ma intanto saremo state magre.
Le cronache del delirio farmaceutico mi hanno fatto tornare in mente gli anni in cui si prendeva l’anfetamina per studiare (io no, visto che ero un’asina). Invece di studiare con costanza ogni giorno, ti prendi le anfetamine e fai una settimana senza dormire prima dell’esame. Perché non dovremmo volere simili scorciatoie per la magrezza?
Quando avevo 39 anni, ed essere una 44 mi sembrava la più tragica delle tragedie possibili, scrissi un libro intitolato Come salvarsi il girovita. All’epoca la soluzione si chiamava Dukan (la dieta d’un francese che ti faceva mangiare solo petti di pollo), oggi si chiama Ozempic (la medicina che ti fa venire troppa nausea anche per i petti di pollo), ma l’analisi non mi pare invecchiata.
È in romanesco, lingua imbattibile per la volgarità spiccia, e dice che la questione si riduce sempre al nostro voler aggirare l’unica via sicura per essere più magre di come natura ci ha fatte: magna de meno.