Tavolo per unoMangiare da soli è bello, se sai come farlo

Sedersi in solitaria a un tavolo di un ristorante gastronomico è un’esperienza estrema, che vale la pena di provare e che può dare grandi spunti di riflessione. Ti raccontiamo come facciamo noi

Foto di Anna Prandoni

Mangiare da sola è un esercizio spirituale, un impegno da prendersi, un modo diverso di concepire il nutrimento. Mangiare in solitaria in un ristorante di cucina gastronomica costringe all’ascolto e alla comprensione, acutizza i sensi ed esplode i pensieri. Non farò la retorica del farsi del bene e prendersi cura di sé stessi: più spesso di quanto non crediamo mangiare da soli è una necessità di cui faremmo a meno, una costrizione dettata da circostanze avverse, sfortuna, poca organizzazione e obbligo. Se no, il pasto lo condivideremmo volentieri. Voi che dite che così non è, state mentendo. Il cibo è socialità, per nutrirci non serve andare su una tavola stellata, e la via più semplice rimane il panino al bar o la pizza. Ma non è di questo che stiamo parlando. E comunque, può anche essere che per diversi motivi, anche non solo per costrizione, ci si trovi in un ristorante gastronomico con un solo coperto, il nostro. Passeremo due ore complicate, solo se non ce la godremo comunque. E se impareremo a farlo, probabilmente ci piacerà al punto da volerlo fare una seconda volta per scelta.

Ho una certa esperienza di pranzi stellati solitari: amo condividere i pasti che faccio per lavoro con qualcuno, perché ho sempre necessità di confronto, e di capire insieme a qualcuno il momento che sto vivendo. Ma, spesso, se sono con qualcun altro il mio giudizio rischia di essere modificato. Se sono con un collega, potremmo essere troppo critici, anche solo per dimostrare la nostra preparazione reciproca. Peraltro, pranzare con due critici gastronomici è un massacro a cui vi sconsiglio di sottoporvi. Se sono con un amico, potrei essere troppo accomodante, perché non voglio sembrare saccente. Se sono con chi amo, tutto sarà comunque più bello e più buono. Se sono sola, faccio i conti con me stessa, e con lo chef. Ma soprattutto, capisco più e meglio che cosa mi succede intorno. E scopro come gira il servizio, attività che assorbe gran parte del mio tempo a tavola. Affascinata da come i camerieri si guardano, da come comunicano e da come risolvono i mille problemi che ogni giorno affrontano all’impronta. Un bicchiere rotto in un tavolo, un piatto che arriva quando il commensale si alza. Il tovagliolo che cade quando non dovrebbe, un’attesa troppo lunga tra una portata e l’altra da smorzare con due chiacchiere ben fatte. Se mangi da sola, i camerieri sono più ben disposti, e tu puoi disturbarli con mille domande, che se ci fosse qualcuno con te non faresti. Sei più attento a loro, e loro più attenti a te. Se la cucina è a vista, poi, non riesco a togliere gli occhi dai movimenti rapidi e sincroni degli chef, in un balletto serratissimo che non smette di affascinarmi nella sua perfezione imperfetta.

Lo ammetto: faccio anche la stalker. Perché è davvero troppo divertente ascoltare ciò che si raccontano i commensali agli altri tavoli, e non dite che non lo fate anche voi. Stacco e riattacco le orecchie prima su un tavolo e poi su un altro, a seconda di qualche parola che mi colpisce di più: cerco di capire chi sono, che lavoro fanno, perché sono lì. Come sono composte le coppie, se è la prima volta o sono habitué. Mi faccio i film, e cerco durante il pasto di capire se ci ho azzeccato oppure no. Si dice che un bravo maître sappia fin dall’ingresso chi sono le persone che stanno entrando, gli basta uno sguardo. Dicono di saper capire immediatamente, per esempio, se una coppia è regolare o clandestina. A me serve un po’ di più, ma di sicuro ormai ho sviluppato una buona capacità di ascolto.

Quando arrivano i piatti, se sono sola, mi concentro solo e unicamente sul guardare, comprendere, analizzare: capisco sia un’attività da nerd dell’enogastronomia, ma già che andiamo in questi ristoranti, perché non approfittarne per capire meglio quali sono stati i passaggi tecnici e mentali che hanno portato lo chef fino a lì? Osservo le stoviglie, e anche la scelta ideologica delle posate. Bacchette, pinzette, posate, posate strane, quante e messe come: vi racconteranno molto di quello che sta alla base dell’idea di cucina dello chef. E appena vedo un salsacucchiaio vado in brodo di giuggiole, e ricordo il mio primo lavoro, quando questo aggeggio metà cucchiaio e metà coltello non l’avevo mai nemmeno sognato. E quando vedo un cucchiaio accanto al risotto penso subito al signor Marchesi, che non poteva farne a meno mai, in pieno stile lombardo. Cedo al telefonino poche volte, e con parsimonia: certo, il mio lavoro impone di fotografare molto, non foss’altro che per ricordarsi anche sul lungo periodo le migliaia di piatti che mangiamo nell’anno. Ma provo a non estraniarmi da dove sono. Osservo molto i dettagli dell’arredo, e penso a come starebbe quel lampadario a casa mia, e alle scelte stilistiche fatte dall’architetto. Capisco così l’epoca dell’ultima ristrutturazione, e se allo chef importa del design: di sicuro è un dettaglio interessante per capire meglio la sua propensione all’applicare questa passione nel piatto, e ci dice qualcosa anche sulle sue condizioni economiche. Ascolto la colonna sonora del locale, anch’essa in grado di svelare molto sulle scelte e sulle idee di chi mi sta accogliendo. È un impegno, mangiare da soli, ma è anche estremamente divertente e formativo, quando sai cosa osservare e sei aperto a comprendere.

PS Grazie a Mariella Organi, Moreno Cedroni e allo staff della Madonnina del Pescatore di Senigallia per avermi ispirata durante l’ultimo pranzo (da sogno) in solitaria. Ai loro tavoli, anche da soli, si sta un gran bene.

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