Money for nothingSono finiti i soldi, ma non il capitalismo dell’illusione

Ci è stato fatto credere che esistesse il lusso a basso costo, ma è un miraggio. In realtà paghiamo le cose troppo poco e quindi i servizi fanno schifo

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Sono finiti i soldi. Dappertutto. Non significa: non possiamo più permetterci cose perché non ci pagano abbastanza. Significa: le cose le paghiamo troppo poco, e quindi fanno schifo.

Su TikTok c’è una tizia mezza irlandese e mezza australiana che era sul pullman che in giugno è andato fuori strada tra Lecce e Roma, e da allora ha fatto una sleppa di video. La tizia è indignata perché tutto quel che la società di pullman ha offerto ai passeggeri traumatizzati è il rimborso del biglietto, «sì e no dieci euro».

Mentre, dice la tizia alla quale l’internet tutta e il secolo tutto ripetono quant’è importante la «salute mentale», dovrebbero come minimo offrire a tutti loro supporto psicologico a lungo termine, e invece di metterci tre giorni a rispondere a una mail avrebbero dovuto chiamarli ogni quattro ore per sapere come stavano.

Ma un’azienda che con dieci euro ti porta da Lecce a Roma, un mondo che ti ha illusa che un aereo per Londra possa costare i soldi con cui vent’anni fa saresti andata con un treno di seconda classe a Rimini, un capitalismo dell’illusione che ti cela la grande verità che nessun risparmio si crea e nessun risparmio si distrugge, un sistema così dove pensi trovi i margini di guadagno per avere un servizio clienti che ti chiami ogni quattro ore, o psicologi per prendersi cura per anni dei passeggeri?

Mia madre faceva la spesa da Melega. Esiste ancora, è un fruttivendolo di Bologna che credo solo coi ricarichi sulle albicocche della mia infanzia si sia comprato come minimo una casa a Porto Cervo. Mia madre telefonava, diceva voglio un chilo di pesche, due di ciliegie, l’insalata già pulita, e Melega le mandava i sacchetti a casa. Nessuno controllava il peso, i prezzi, niente.

Non so chi faccia la spesa in quel modo oggi: petrolieri russi? Emiri? Secondo me persino Daniela Santanchè fa i punti dell’Esselunga, perfino Elon Musk ha una cameriera che gli compra i corn flakes in offerta. Nel secolo scorso, i ricarichi erano il prezzo che mia madre pagava per non fare duecento metri coi sacchetti. O perché mio padre non prendesse la macchina e andasse fuori porta.

Nel secolo scorso, nel centro delle città non c’erano supermercati. I supermercati erano luoghi che richiedevano metrature che in centro erano impensabili, tutti i supermercati minuscoli nei quali facciamo la spesa oggi nessuno se li era ancora inventati. Da piazza di Spagna o altri punti del centro di Roma dovevi arrivare a villa Borghese, per trovare un supermercato, o se non volevi spostarti facevi la spesa in posti tipo Roscioli, che all’epoca non era un ristorante di lusso ma un alimentari fatiscente dove una scatoletta di tonno e sei uova ti costavano diecimila lire (se pensate che diecimila lire di trent’anni fa siano cinque euro di oggi, chiudete l’internet e andate a studiare).

Poi qualcuno si è inventato i supermercati grandi come il mio tinello, i residenti dei quartieri ricchi hanno scoperto che si poteva fare la spesa a cifre non dico da poveri ma quasi, e Roscioli saggiamente si è riconvertito in posto di lusso. Che dovrebbe essere l’unico settore in cui ancora girano soldi, almeno così mi ha giurato una commessa di Prada spiegandomi come mai c’era la fila di clienti fuori dal negozio in Galleria, a Milano.

Ma la fila – fuori da Prada, ma pure fuori da Chanel, e persino fuori da Hermès – c’è perché fanno entrare i clienti solo se ci sono commessi disponibili a servirli. La fila di turisti in ciabatte che non fa esattamente effetto visivo lusso e voluttà. La fila che significa che i negozi di lusso non hanno abbastanza personale, come le ditte di pullman pugliesi o come l’Esselunga o come Heathrow.

Un paio di settimane fa hanno perso una valigia a un influencer che conosco. Essendo egli un uomo la cui precipua caratteristica è essere ben vestito, era disperato. Guardavo le sue storie e pensavo: ma come ti viene in mente d’imbarcare la valigia, lo sanno anche i turisti occasionali che le valigie non s’imbarcano.

La settimana scorsa sul New York Times c’era addirittura un editoriale. Il tizio che lo scriveva spiegava che lui è gay, e lui e il suo fidanzato ritengono inaccettabile indossare la stessa cosa due volte allorché in vacanza, e quindi viaggiano con bauli e cappelliere e imbarcano il bagaglio e quindi ovviamente gliel’hanno perso.

Una volta avrei sbuffato: ero la reginetta del bagaglio a mano, ritenevo dilettantesco imbarcare le valigie. Nel frattempo però sono finiti i soldi. E quindi sì, la valigia non la puoi imbarcare perché negli aeroporti non c’è abbastanza personale per gestire i nastri del ritiro bagagli, e quindi te la pèrdono.

Ma non la puoi neanche portare con te: l’ultima volta che sono stata a Heathrow mi hanno fatta ammattire di attese, perché il biglietto di prima classe che ti dà diritto ai controlli prioritari ti manda in una fila in cui il tizio che gestisce le file manda, oltre a te, gente a caso per smaltire le altre eccessive file, e in quella fila come in tutte le file non c’è abbastanza personale; e quindi, se allo zelante controllore di valigie il tuo campioncino di contorno occhi sembra sospetto, perdi un’ora in attesa che qualcuno dissequestri la tua valigia e capisca che sei al massimo sospetta d’attentato alle zampe di gallina.

Se anche il tuo biglietto aereo lo paghi più dei prezzi senza senso del turismo di massa, non viaggerai in modo meno bestiale di chi ha pagato diciannove euro e novantanove, perché la prima cosa che è successa quando sono finiti i soldi è che hanno smesso di assumere gente nelle strutture condivise da ricchi e poveri, aeroporti e simili.

L’altro giorno Chiara Ferragni si è fotografata, con al braccio una Birkin di coccodrillo che costava come un appartamento, in fila per prendere un EasyJet, e io ho pensato ma speriamo che una volta fatta la foto sia andata di nascosto a prendere un aereo privato, poveraccia. (Se ti fotografi su un aereo privato poi gli ecologisti chi li sente, e per gente che non concepisce di vivere senza fotografarsi è un bel problema).

Sono finiti i soldi, e ci hanno illuso che esistesse il lusso a basso costo. Qualche settimana fa mi ha telefonato un amico assai agitato. Lui era fuori città, la moglie era a casa da sola, aveva ordinato la cena, e il fattorino si era rifiutato di salire. Ella non è abituata a trattare con le consegne (sono gente che di solito non ordina a domicilio, non hanno i miei toni da teppista) e pensava bastasse spiegare al fattorino o al servizio clienti che era a letto con una gravidanza a rischio e proprio non poteva scendere lei. Ma della sua cartella clinica il fattorino se n’è fottuto e Deliveroo pure. Le ho portato del cibo e mi sono messa a riflettere sul capitalismo.

I fattorini sono l’ultimo anello della catena sociale? Forse sì, ma in quel caso chi era il soggetto debole tra fattorino che si scoccia a far le scale e donna incinta che non si può muovere? Se non fossero finiti i soldi, al servizio clienti di Deliveroo ci sarebbe stato qualcuno capace di riconoscere il problema e imporre al fattorino di fare il suo lavoro (o almeno rimborsare la cena alla tizia e regalarle un astice, che mi sarebbe parso un po’ il minimo)?

Quando non c’erano le app a illuderti che un lusso come la cena a domicilio potesse essere gratis o quasi, quando dovevi rivolgerti al ristorante dove andavi il sabato sera e loro, la volta in cui non potevi muoverti, ti facevano la cortesia di mandarti un ragazzo col filetto, e quel filetto ti costava uno sproposito ma nessuno si rifiutava di far le scale, era meglio o era peggio?

L’Esselunga ti porta la spesa a casa gratis o quasi, e senza neppure farti pagare otto etti di frutta come fossero un chilo: mica penserete che questo risparmio sia gratuito. Undici giorni fa ho telefonato al servizio clienti. È una cosa che evito sempre di fare: quando mi mandano delle uova rotte (cioè: ogni volta che ordino le uova) non li chiamo, quando sbagliano qualcosa nella consegna non li chiamo, non li chiamo mai. Non perché sia comprensiva degli altrui errori: perché chiamare l’Esselunga è un inferno.

Tutto, in quel numero fantasma che chiamano “servizio clienti”, è concepito per farti desistere. Devi sapere a memoria il tuo numero di carta Fidaty, devi superare le correnti gravitazionali e i numeretti automatici, devi ascoltare interi quarti d’ora di Giusy Ferreri. E forse a quel punto qualcuno ti risponde.

Quella mattina, ho spiegato alla signorina che mi ha infine risposto che avevo un contrattempo, all’ora della consegna non sarei stata a casa, normalmente i fattorini lasciano sul pianerottolo ma era una spesa piena di latticini e sul pianerottolo a luglio sarebbero marciti. Mi ha detto che avrebbe avvisato il fattorino: invece che all’una, la spesa sarebbe arrivata alle quattro.

Quando sono tornata, il gorgonzola era squagliato sul succo d’arancia in modi che avrebbero fatto vincere un Turner Prize a Tracey Emin: invece che all’una, il fattorino era venuto a mezzogiorno. Nessuno l’aveva avvisato? L’avevano avvisato e aveva pensato che non lo pagano abbastanza per cambiare tragitto e anzi per dispetto sarebbe arrivato prima? La signorina aveva pensato che senza i ricarichi di Melega non valeva la pena accontentarmi? Non lo sapremo mai: io venti minuti da trascorrere aspettando che mi rispondano al telefono non ce li ho, e alla mia mail non si sono mai degnati di rispondere. Sono finiti i soldi, ci sarà un unico impiegato che risponde alle mail di tutti i clienti d’Italia: starà ancora smaltendo i reclami di quelli che hanno ricevuto le uova rotte a maggio.

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