Negli ultimi mesi è diventato sempre più palese il tentativo di Manfred Weber, presidente del Partito Popolare Europeo, che rappresenta la principale forza di centrodestra a Bruxelles, di intavolare un dialogo con l’estrema destra su una serie di dossier strategici, in vista delle elezioni del 2024 e del previsto aumento dei consensi dei conservatori del gruppo ECR (tra cui siedono Fratelli d’Italia o la spagnola Vox).
La settimana scorsa, il voto sul regolamento per il ripristino della natura ha mostrato in maniera chiara questa dinamica, con i Popolari che hanno polarizzato e ideologizzato lo scontro su un testo che pure erano riusciti a emendare in molte parti, ma al quale in seduta plenaria a Strasburgo hanno votato contrario, incassando un’importante sconfitta a opera di un fronte ampio, costituito da Verdi, Socialisti, liberali e persino alcuni settori dei popolari stessi, e compattatosi di fronte al livello di scontro portato avanti dal PPE e dal suo leader.
La linea tenuta da Weber, tuttavia, risponde anche alla volontà, mai troppo nascosta, di contrapporsi alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, proveniente, come lui, dal centrodestra tedesco. Il conflitto tra i due nasce già nel 2019, quando Weber, ufficialmente candidato dei Popolari alla guida della Commissione, ha visto il partito mettere da parte il suo nome nel tentativo (poi riuscito) di creare una coalizione ampia per raggiungere la maggioranza, dialogando con socialisti e liberali e preferendo von der Leyen come nome unitario, con la benedizione di Angela Merkel (all’epoca Cancelliera).
Nel corso della legislatura, Weber è finito a incarnare l’ala destra del PPE, temporeggiando ad esempio sull’espulsione di Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, o sostenendo, all’epoca delle elezioni politiche italiane, che Forza Italia (espressione italiana dei popolari) garantisse l’aderenza ai valori europei della coalizione guidata da Giorgia Meloni, mentre in diversi, anche nel partito, sollevavano preoccupazione per un possibile governo guidato dall’estrema destra in cui Forza Italia avrebbe svolto il ruolo di azionista di minoranza.
Mentre von der Leyen, in linea con il suo ruolo istituzionale, rinforzava l’immagine di figura del centrodestra europeo dialogante con altre forze politiche e orientata a portare a casa una serie di risultati come NextGenerationEU o il Green Deal, Weber tesseva gradualmente un dialogo con l’estrema destra e con le parti sociali più restie agli obiettivi ambientali europei, alimentando spesso la retorica che li presentava come lontani dal sentire comune e dalle reali necessità dei consumatori e dell’industria europea.
Guardare al solo piano europeo, però, significa concentrarsi solo su una parte della storia. La contrapposizione risponde anche a dinamiche nazionali: pur appartenendo entrambi al centrodestra tedesco, Ursula von der Leyen e Manfred Weber vengono da contesti molto diversi. La prima, infatti, è della CDU, lo storico partito tedesco al governo durante i decenni del dopoguerra, di ispirazione popolare ma anche, all’occorrenza, pragmaticamente riformista. Per di più, l’attuale presidente della Commissione europea era vicina ad Angela Merkel, figura centrista e dialogante con i socialdemocratici.
Weber, invece, è bavarese, e come tale appartenente alla CSU, versione locale della CDU, a cui è alleata ma di cui costituisce, tradizionalmente, l’ala più conservatrice sul piano sociale e culturale, e legata a mondi e settori produttivi (come quello dell’industria agroalimentare, rilevante in Baviera) tendenzialmente ostili all’approccio europeo agli obiettivi ambientali.
In questa prospettiva, lo scontro tra von der Leyen e Weber non è soltanto un conflitto tra due diversi modi di intendere il popolarismo europeo, ma anche tra due partiti tedeschi che, pur alleati, hanno posizioni talvolta molto diverse, e si contendono elettorati simili.
Per Weber, dare rappresentanza ai settori più conservatori significa non solo rimanere fedele all’immagine che gli deriva dalla sua provenienza politica e ai settori della società tedesca a cui la CSU fa riferimento, ma anche accreditarsi presso quella parte di elettorato europeo che vede l’attuale linea della Commissione come troppo riformista e potenzialmente dannosa per le istanze di una parte della società e dell’economia europea.
Von der Leyen, inoltre, ha fatto parte dei governi Merkel ininterrottamente dal 2005, ma è stata una delle figure più criticate: da ministra della Difesa, le forze armate tedesche hanno spesso sofferto di sottofinanziamenti e scarsa organizzazione, a volte finendo nel mirino polemico di partner internazionali. Anche a causa di questo contesto, per von der Leyen è risultato difficile diventare una figura nazionale di primo livello, nonostante la sua vicinanza a Merkel (che ha preferito, dunque, impiegarla sul fronte europeo).
Contestare von der Leyen, per Weber, significa dunque attaccare uno degli anelli più degli di quella fase politica, per contrastare una certa linea merkeliana, incarnata prima da Annegrette Kramp-Karrenbauer e poi da Armin Laschet, a cui von der Leyen è ascrivibile. Una linea verso cui la CSU ha sempre mostrato insofferenza, e a cui addossa il calo di consenso e le sconfitte elettorati subite dal centrodestra tedesco negli ultimi anni.
Ora che l’epoca della Cancelliera è finita, per Weber (e per la CSU) contestare gli eredi della sua linea significa accreditarsi sempre di più presso l’elettorato conservatore tedesco, provando anche a esprimere il prossimo candidato Cancelliere (ruolo solitamente affidato a figure della CDU). In questo senso, la linea di Manfred Weber, a livello europeo, è (anche) una riproposizione di uno scontro nazionale tra due partiti apparentati, ma in contrasto su alcuni temi centrali.
I tentativi di dialogo tra popolari e conservatori a Bruxelles continueranno: ma su questa operazione non si giocherà solo il futuro del prossimo Parlamento europeo, bensì anche una quota non irrilevante degli equilibri interni al centrodestra tedesco, oltre che l’eredità politica di Manfred Weber.