Due più due La franchezza di Betty Halbreich e l’asfissia delle monologhiste dolenti

A 95 anni la personal shopper di Bergdorf Goodman per le ricche newyorkesi è su TikTok, distilla saggezza e si permette ancora di dire alle clienti che certi vestiti sarebbe meglio non indossarli

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«La maggior parte delle persone non mi considera terribilmente inadeguata. Vorrei capiste: non so fare due più due. Non lo capisco, non m’interessa, non lo faccio. Giacché io se non voglio fare una cosa non la faccio, e questo è il modo in cui ho affrontato la vita».

Succede, con stremante rarità, che i social abbiano un senso, e a svelarti quel senso è sempre sempre sempre l’algoritmo cinese, che non si capisce perché gli americani non copino. È grazie a lui, nonostante gli stessi video stessero su Instagram che non me ne ha mai informata, che ho scoperto che su TikTok c’è Betty Halbreich.

Betty Halbreich è nata a Chicago nel 1927, ed è andata a vivere a New York a vent’anni, quando si è sposata («nel 1947, subito dopo la seconda guerra mondiale, quando non si sposava nessuno») con un signore che si occupava di tessili per la piccola borghesia e che, se alla moglie piaceva qualcosa di quel che stava per mettere in produzione, sapeva che quel qualcosa non avrebbe mai funzionato col grande pubblico, e cambiava pianificazione.

Nel 1977, l’amministratore delegato di Bergdorf Goodman la vede in un ristorante di Chicago, la trova scicchissima, e dà ordine di assumerla. Per chi segue i notiziari in questo tempo sbandato, Bergdorf Goodman è innanzitutto il grande magazzino in un cui camerino, nel 1996, Donald Trump ha violentato Jean Carroll.

Prima della cronaca giudiziaria degli ultimi anni, però, Bergdorf Goodman era solo un grande magazzino newyorkese così entelechia delle ricche da aver dato il titolo al primo romanzo di Plum Sykes che aveva appunto per protagoniste le ragazze ricche, “Bergdorf Blondes” (orrendo titolo italiano: “Biondo n° 5”).

Betty, che non sa fare due più due e se ne vanta, certo non può stare alla cassa, si annoia moltissimo a fare la commessa per i turisti qualunque, e quindi dopo un anno va dai suoi capi e dice loro: affidatemi il ruolo di personal shopper. Per vedere come funziona, le danno da fare acquisti innanzitutto per Babe Paley (annuite forte, bisbigliate «Certo, una dei cigni di Truman Capote», e tutti penseranno che sappiate di chi parliamo, e potrete passare senza indugio e senza Google al paragrafo successivo).

Commento di Betty su Babe: «Non era una gran prova d’abilità, guardava solo Givenchy». Con quell’andare a colpo sicuro, privava Betty del gusto di fare ciò per cui sarebbe poi diventata famosa: scoraggiare le ricche dall’acquistare cose che non fanno per loro. Se serve, sfilandogliele di dosso, «si fidi: è tremendo», prima che le tapine possano guardarsi allo specchio.

Dieci anni fa, nel documentario da cui appresi la sua esistenza, “Scatter my ashes at Bergdorf’s” (orrendo titolo italiano: “Fashion sulla 5th Avenue”, si trova su Apple), si raccontava della poverina cui aveva prima sconsigliato un vestito, salvo poi incoraggiarla a comprarlo: «È comunque meno orrendo di quello che indossavi quando sei entrata qui».

Qualche mese prima, il New Yorker aveva raccontato la sua giornata con una cliente figlia di cliente. Essere seguite da Betty è un privilegio ereditario: ha tre clienti che sono tutte e tre vedove dello stesso uomo (che grande romanzo sarebbe); ma ha regole molto rigide, «Non prendo come cliente la seconda moglie se vestivo la prima, né l’amante se vesto la moglie».

La cliente figlia di cliente viene subito inquadrata da Betty come una che non può che vestirsi in modo costoso: troppe curve per conciarsi da ragazzina. Quando la poverina adocchia un Alaïa con delle increspature all’uncinetto, Betty la fulmina: con quel sedere? Era il 2012, oggi il New Yorker apporrebbe una nota condannando fermamente il fat shaming praticato dall’anziana venditrice che non capisce le odierne sensibilità.

Betty tiene le camicie in freezer, perché dice – e io le credo: crederei a qualunque cosa mi dicesse una novantacinquenne evidentemente più lucida di me e con un piglio che la gente ordinaria non ha neanche a ventisei – che il gelo umido funziona meglio, per stirare, dell’appretto. Spero sia un consiglio che dà alle clienti di Bergdorf – dove lavora ancora, certo. Mica il suo ruolo è limitato al far desistere le culone dall’intenzione di comprare gonne di maglina: «È una professione di servizio, umile, in cui devi trovare per le tue clienti una tata, un fidanzato, ascoltare i loro guai». Betty sta alle ricche di Bergdorf come gli autori televisivi italiani alle conduttrici, ma finge di tirarsela di meno: «Fondamentalmente, sono una commessa».

Il suo talento, dice, è ascoltare. Non può che avere accumulato tantissime storie, oltre alla sua (l’esaurimento, come si chiamava allora, quando il marito la lasciò, il manicomio, la vita salvata dai vestiti). Ha, racconta su TikTok, cinquantuno legal pad pieni. (Usiamo gli stessi blocchi, chissà come mai non sono altrettanto stilosa).

I legal pad sono quei blocchi gialli grandi come fogli protocollo. Nei cinquantuno di Betty c’è la sua storia, «per farli trascrivere ci vorrebbero più soldi di quanti possa permettermene». Ci sono quelle storie che, nel documentario su Bergdorf, oscuravano meraviglie come Liz Taylor che compra trecento paraorecchie di visone per fare i regali di Natale a Gstaad. Centinaia di pagine gialle piene di cinquant’anni di storia dell’alta società.

Chi vede i blocchi, dice esasperata ma sorridendo, le complimenta sempre la bella grafia. «Ma io non voglio vendere la mia calligrafia, voglio vendere le mie idee». Qualcuno se le compri, per carità.

Ché prima o poi le Halbreich moriranno tutte, lasciandoci sole con le monologhiste dolenti che ci spiegano che nessuno può permettersi di dire che un vestito non ci dona, che darti della culona e stuprarti sono due occorrenze di pari gravità a parità di camerino di Bergdorf, e che dopo aver postato questo penzierino su Instagram esse hanno il burnout da lavoro usurante.

Resteremo sole con le inette, e insomma, almeno che ci resti qualcosa da leggere.

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