Una fiaba di pianuraLa storia del drago-biscia che nuota nel lago Gerundo

Si dice che, nel bel mezzo della pianura Padana, i fiumi Adda, Brembo e Serio avessero scavato un lago. Una pozza d’acqua di terra e di ghiaia, e quindi un formidabile impasto di acquitrini, specchi d’acqua immobili e punti dalle petecchie cinabro di miliardi di lenticchie. Qui, per anni, dilagava la sensazione che ci abitasse una presenza mostruosa

Tarantasio. Ph: Kings

Gerundo lo chiamavano, e proprio perché il fondo era di gera: ghiaia, la stessa sminuzzata dal ritiro dei vecchi ghiacciai e abbandonata nei fondali padani. Come ogni palude che si rispetti, le sue frequentazioni cominciarono in occasioni di fuga, riparo e nascondimento. Chi altri dovrebbe andare a vivere in aree stantie e miasmatiche, se non profughi e latitanti? Questo era il carattere delle paludi tutte: spaventose e infrascate, rigorosamente da evitare. Ma questa più delle altre aveva una ragione in più per incutere spavento, ragione che prendeva il nome di Tarantasio, il drago biscia del Gerundo.

Tarantasio. Ph: Kings

Si racconta che tale era l’alito della bestia che nessuno aveva mai potuto raccontarne l’odore. Solo ad aprir le fauci il Tarantasio capottava convogli interi, facendo scivolare nelle acque dense chi s’approssimava alle sponde morte. Alle volte, tanto l’aria della palude era densa e pesante che l’alito si mescolava alla nebbia, e spargeva qua e là quella temibile febbre per cui i volti s’ingiallivano, e tra tremori e svenimenti improvvisi nessuno sapeva mai dire bene e nel dettaglio che forma specifica avesse questa bestia, e nemmeno quali aree del Gerundo prediligesse. C’era chi sosteneva d’averlo visto tutto abbarbicato a un salice argentato, chi alle pendici di un olmo, al termine delle lunghe golene in cui il fango palustre si dirada, secco e stopposo. Altri giuravano persino di aver visto branchi di Taranti, così li chiamavano al plurale, scodare come corde impazzite nell’acqua e altri ancora d’averne visto uno di qua e uno di là, come a dire uno a Gera d’Adda e l’altro a Grumello o finanche a Crema, che all’epoca era un’isola detta Fulcheria, “la Bella”.

Tarantasio. Ph: Kings

Insomma, i dubbi erano tanti, ma in particolare uno: se la bestia fosse una o fossero tante, una specie intera o una famiglia di Taranti. Tanto poco lo si era visto che non si poteva nemmeno sapere se, tanti o uno che fossero, si potesse parlare di sesso distinto o se lo cambiassero come fanno le lumache. Il fatto era che chiunque incrociasse la bestia fuggiva a gambe levate, e allora si raccontavano i lineamenti di sempre, quelli del sentito dire, che hanno puntualmente il gusto delle leggende: una biscia con una testa grande come quella di un bue e coronata da una lunga cresta smeraldina, corna rugose come il legno del frassino, una lingua scattante e tripartita, lunghi arti palmati e squame spesse e lucenti.

Tarantasio. Ph: Kings

Tutti però riconoscevano il suo influsso, e allora la sua indubitabile esistenza. C’erano le pestilenze e gli odori ricorrenti di putrescenza, le canoe marcite e sventrate, i gorgoglii saltuari degli specchi d’acqua, e ovviamente le sparizioni di uomini, donne e bambini. Tanto fu lungo il tempo della caccia che nemmeno si sa bene chi infine riuscì nell’impresa di estirparlo, se era il Tarantasio, o a estinguerli, se erano i Taranti. Tra i candidati dobbiamo riconoscere: il Santo Cristoforo, sceso dal cielo in favore dei naviganti, scocciati dai continui tafferugli che le bestie occorrevano alle imbarcazioni; il Vescovo di Lodi, smanioso di iniziare la costruzione della città bassa e di gridare al miracolo; il primo Visconti, in tenuta cavalleresca, alla ricerca della gloria e di un bel blasone; il San Colombano, riconosciuto da tutti come strenuo cacciatore di draghi; e infine il Barbarossa in assedio a Lodi, del quale si dice che dall’avamposto di Camairago, gridando «Dio Biscia!», versò fiumi di olio bollente e cangiante in tutta la conca, avvelenando il drago e i suoi eventuali conspecifici.

Tarantasio. Ph: Kings

Fatto sta che a seguito dell’impresa l’intero lago si ritirò, risucchiato nella terra. Sicché si può anche pensare che l’acquitrino non fosse nient’altro che una sordida secrezione delle bestie, che una volta scomparse si portarono via la loro palude. Al suo posto rimase un’ampia depressione, come un cratere nel bel mezzo della pianura. Lì squadre di monaci prodighi di bonifiche si dedicarono alla virtù del lavoro agricolo, assicurandosi che la terra fosse buona, ruminandola con interesse e certificandone l’indubbio potenziale. Fecero allora i canali, drenarono l’acqua rimasta, piantarono decine d’erbe e frumento e misero tutti al lavoro, perché altrimenti non si sapeva che farsene di quella terra buona.

Ma anche dopo tutto questo lavoro, di tanto in tanto pareva che i Taranti s’ostinassero a restare là dove non avrebbero dovuto esserci. Col tempo si edificarono tanti villaggi civilizzando i palustri, ma le febbri rimasero. S’alzarono gli argini per tenere lontani i fiumi e li si spezzarono ad arbitrio, ma le alluvioni e le esondazioni perseguivano il ritorno del lago. Si costruirono pure vie di ciottoli e poi d’asfalto, ma di tanto in tanto, là dove prima c’era il letto del lago, qualcuno sveniva ancora, crollava su un tappeto d’erba secca e giallognola e non s’alzava più. Ci volle del tempo per capire che dalla terra non usciva soltanto acqua, ma pure tanto metano, e allora tutto sembrò chiarirsi: in pianura non c’era né un drago né tantomeno un lago, ma soltanto un grande e infinito intossicamento che non ne vuole sapere di farsi trascinare via dal vento.

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