Fuori dalle stanzeForza Italia è irrilevante, ma Meloni deve evitare di umiliare Tajani

Il segretario del partito fondato da Berlusconi è quasi fuori dai giochi di potere della destra, come dimostrano il caso degli extraprofitti e delle privatizzazioni. Ma allo stesso tempo per la premier è un alleato più affidabile di Salvini

Lapresse

Non potremo mai sapere se la proposta di tassare gli extraprofitti delle banche Giorgia Meloni l’avrebbe anticipata a Silvio Berlusconi. Sappiamo di certo che Antonio Tajani non è stato informato. Ne è venuto a conoscenza quando Matteo Salvini, a sorpresa, in una conferenza stampa ha annunciato la mini «stangata» (perché di questo si tratta: servirà a trovare pochi miliardi per la manovra economica). Ed è stato lo stesso leader della Lega che ha chiuso ogni discorso sulle privatizzazioni lanciate dal segretario di Forza Italia dal palco del Meeting di Rimini. Se la stessa uscita pubblica in pieno stile liberale l’avesse fatta il Cavaliere il ministro delle Infrastrutture ci avrebbe pensato due, tre, quattro volte prima di parlare. Non per questo tuttavia sarebbe stata accettata da tutta la maggioranza.

Extraprofitti e privatizzazioni sono due esempi clamorosi che segnalano in che considerazione è tenuta Forza Italia. Oggi peggio che in passato con una destra a tutto tondo che si trascina dietro un moncherino di centro. È il caso di ricordare che neanche Berlusconi era del tutto informato di quello che decidevano gli alleati. Un ricordo per tutti: quando si stava componendo il governo, Meloni aveva deciso che al dicastero della Giustizia sarebbe andato Carlo Nordio e non Maria Elisabetta Casellati. Aveva pure stabilito che Licia Ronzulli non sarebbe stata della squadra governativa. Nulla di tutto questo era stato deciso insieme.

Era invece stato informato Salvini, che i nomi dei suoi ministri li aveva scritti nero su bianco. La premier incaricata li aveva accettati senza battere ciglio. Finì con la sceneggiata nell’aula del Senato, con Ignazio La Russa che si avvicinò al banco di Berlusconi per placarlo e venne mandato a quel Paese in malo modo. Per la cronaca, finì pure che l’ex premier se ne fece una ragione, accettò pure il diktat della leader di Fratelli d’Italia e il suo sibillino «non sono ricattabile». Il vecchio leone passò pure sotto la forca caudina di via della Scrofa 39, sede di Fratelli d’Italia, dove si recò per siglare la pace.

Tajani non è ricattabile. È stato un fedele ministro degli Esteri, sta lavorando per un accordo tra Popolari europei e Conservatori per il dopo Europee, è l’unico che non ha mai creato grane alla premier e interpreta al meglio, per vocazione naturale, la linea filoatlantista del governo. Eppure, al pranzo presso la Cantinetta di Bolgheri, quando Meloni e Salvini hanno siglato il patto di non belligeranza per tenere fuori il governo dalla competizione europea, lui non c’era. Un patto fragile e scritto nell’acqua. Antonio non c’era all’ombra dei cipressi quando è stato deciso di tirare fuori l’imposta “marxista” sugli extraprofitti, che dovrebbe avere l’effetto di compensare agli occhi di un certo elettorato di destra la delusione per tutte le promesse elettorali che nella legge di Bilancio non verranno mantenute. Meloni si è assunta tutta la responsabilità della decisione, spiegando che doveva rimanere riservata. In sostanza Tajani non doveva sapere, perché altrimenti l’avrebbe subito spifferata al suo amico Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana. C’è una grande fiducia nel vicepremier.

Ora la delusione sulle privatizzazioni. Il segretario di Forza Italia vorrebbe aprire una nuova stagione di privatizzazioni per fare cassa e puntare soprattutto sulle municipalizzate e sui porti che sono interamente in mano pubblica. Si tratterebbe di un’operazione liberale “smonta-carrozzoni” per portare risorse al Bilancio. Ma Salvini, che ha la competenza sui porti, non ci pensa minimamente di mollarla: la vendita delle infrastrutture portuali non è nell’agenda di governo, dice. No al modello greco del Pireo, dove la maggioranza della proprietà è andata ai cinesi.

Il ministro degli Esteri sapeva benissimo che la sua proposta di liberalizzazione modello anni Novanta sarebbe caduta nel vuoto. Gli è servita per marcare la natura liberale di Forza Italia, per distinguersi da Lega e Fratelli d’Italia. Ma è sembrato il volo della gallina. L’ennesima prova della quasi irrilevanza della creatura politica lasciata da Berlusconi. Meloni dovrà però stare attenta a non umiliare troppo Tajani e, con lui, chi sta alle sue spalle: Marina Berlusconi. Quando si faranno i conti con i voti delle europee, il segretario di Forza Italia non farà scherzi alla premier. La stessa cosa non si può dire di Salvini.

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