La conferenza stampa è stata convocata da Antonio Tajani per dire una e una sola cosa, il resto è procedura anodina che conferma la reggenza del ministro degli Esteri, presidente pro tempore. Quello che contava è la telefonata di Marina Berlusconi. Lei ci è vicina, Lei non stacca la spina al partito, Lei continuerà a finanziare Forza Italia, Lei ci vuole uniti («non litigheremo», assicura Licia Ronzulli lanciando uno sguardo languido ad Antonio seduto accanto all’altro capogruppo Paolo Barelli). Lei vuole che garantiamo la governabilità e non creiamo problemi all’altra Lei, Giorgia Meloni, la nuova principale.
Non c’è traccia, nella telefonata di tutto afflato, di quest’ultima liaison di cui abbiamo scritto in questi giorni. Ma il senso è questo, il messaggio di Tajani è «state boni», per dirla alla Maurizio Costanzo. Il gioco è tutto lì, tra le due donne forti della maggioranza che hanno interessi convergenti e paralleli. Non ce n’è traccia esplicita, ma quella telefonata, riferita da Tajani sotto lo sguardo sornione di Silvio Berlusconi nella gigantografia che troneggia alle spalle, trasuda eredità politica e una garanzia a tempo.
Gli orfani azzurrini hanno un anno scarso – se si vota alle Europee il 9 giugno del 2024 – per dimostrare di essere vivi e vegeti, di reggere alla botta per la scomparsa del Cavaliere, al quale era rimasto appiccicato alle dita un tesoretto di voti che non può disperdersi in vista dei nuovi assetti di potere europeo. Chi vuole fuggire e bussare alla porta di Fratelli d’Italia e della Lega non verrà accolto. Bisognerà vedere se l’accordo tra la primogenita, Tajani, Meloni e Matteo Salvini reggerà. Qualche dubbio ce l’abbiamo, su quest’ultimo soprattutto.
Il punto non è la transumanza dei parlamentari. Chi è così pazzo da scendere da un transatlantico sicuro per salire su una una zattera con il mare in tempesta? Il punto sono i voti. Il terrore è sintetizzabile in un numero, quattro per cento, l’asticella che bisogna raggiungere alle Europee. Magari quel sei-nove per cento, che era il sangue residuo di Berlusconi in carne e ossa, rimarrà dentro i confini della destra-destra, cosa molto probabile. Oppure un pezzo non andrà a votare, qualcuno magari si accorge del Terzo Polo. Quello che conta, per la presidente di Mondadori, è che l’asset in perdita ereditato dal padre qualcosa renda. Se deve essere solo una spesa, una continua emorragia, tra liti e polemiche interne, allora Marina chiuderà bottega.
Forza Italia è un partito con la scadenza. Da qui il terrore che emerge nelle parole di tutti gli esponenti con cui capita di parlare. Ci sono gli espliciti come Gianfranco Miccichè e Marcello Dell’Utri che lo dicono espressamente: Forza Italia non può esistere senza Silvio, ma loro passano per i soliti siciliani pessimisti e apocalittici. E c’è chi lo confessa in privato ma poi in pubblico non fa una piega, parla di continuità e di onorare il ricordo di Lui che è diventato un Santino.
Il brand Berlusconi, ancora vendibile sugli scaffali del supermercato della politica, potrebbe con ogni probabilità rivelarsi un’illusione. E non c’è bisogno di essere siciliani per capirlo, anche se dalle parti dell’isola, dove i voti ancora ci sono – o meglio, c’erano – il polso della situazione si sente meglio. Lo stesso vale per la Calabria e la Campania. C’è terrore, cupio dissolvi sulla base di una semplice e banale constatazione. Se il mantra è che comanda Giorgia, a che serve continuare a votare Forza Italia, che ha la faccia non carismatica di Tajani? Solo perché lo chiede Marina? Scendesse Lei in campo, cribbio!, avrebbe esclamato il Cavaliere.
Se Forza Italia si appiattisce su Fratelli d’Italia e ne diventa una succursale, un clone, meglio votare l’originale, il partito dell’altra Lei. Cosa che già fanno a milioni. Per non parlare poi dei vari piccoli colonnelli e soldati di provincia che si portano dietro i loro pacchetti di voti, gli amministratori locali che vivono di rendita politica e non certo di ideali. A squagliarsela e riaccasarsi ci vuole un nano-secondo. E a quei livelli non ci sono le porte chiuse di Meloni e Salvini che tengano. Altro che telefonate assicurative di Cologno Monzese.
Ci vuole il nome di un Berlusconi per vedere l’effetto che fa. Così è spuntato quello di Paolo, il fido fratello di Silvio, su Repubblica. Nome – non smentito ieri alla conferenza stampa – per le suppletive di Monza necessarie a sostituire il de cuius nel seggio del Senato. «Se ne parlerà dopo l’estate, ne parleremo con gli alleati», liquida la faccenda Tajani. Paolo, della famiglia, è quello nullafacente dopo la vendita del quotidiano Il Giornale. Ma c’è un problemino: e se venisse trombato, dimostrando che dopo Silvio non ce n’è un altro?
Sarebbe la morte prematura di ogni illusione, la certificazione che, morto il fondatore, c’è il diluvio. È altamente sconsigliabile candidare l’incolore Paolo per testare se il brand di famiglia continua a vendere. Perché, se così non fosse, arrivare alle Europee sarebbe mostruosamente difficile. Più facile spendere un nome minore della casa reale, magari quello del tesoriere Alfredo Messina.
L’incubo è il quattro per cento: come fare per esorcizzarlo. Si potrebbe aprire a livello nazionale un’operazione che veda la partecipazione di soggetti diversi, un nuovo partito oppure una federazione, o una lista di moderati, centristi, liberali per le Europee. Alcuni berluscones accarezzano l’idea che della partita ci possa essere Renzi, il royal baby di Giuliano Ferrara. Ma l’ex premier dovrebbe bruciarsi i ponti alle spalle e imbarcarsi in un’operazione non sua, ma tutte nelle mani di Lei&Lei.